Per rispondere alla vostra domanda “in che modo questo progetto ha contribuito alla tua crescita personale e professionale?” utilizzerò un concetto basilare, che sto provando a re-interrogare periodicamente a partire dai singoli progetti in fase di sviluppo: quello di drammaturgia. Sto cercando di ricreare, di volta in volta, una distinzione tra la specifica costruzione drammaturgica di un’opera e la “funzione drammaturgica” più ampia che un determinato processo può innescare. O forse sarebbe meglio dire che può “adescare”. Penso infatti alla funzione drammaturgica, oggi, come ad un processo estremamente poroso, estroflesso, non concentrato solo sulle componenti formali di un lavoro, ma al contrario capace di creare un riverbero potenzialmente inesauribile che preceda, nutra e accompagni tutte le fasi del lavoro. Per questa ragione mi piace pensare la drammaturgia come “sistema adescante”.
Mi sembra fondamentale precisare subito che le “esche” a cui mi riferisco – al contrario di come saremmo spinti a pensare – non le intendo come qualcosa da lanciare al pubblico. Al contrario ritengo fondamentale che proprio intorno all’opera si costruisca un sistema di interazioni complesso e il più possibile orizzontale, tale per cui, alla fine, quello che aderisce all’esca, ciò che abbocca, sia proprio l’opera stessa: intesa qui come schiacciante evidenza, come punta dell’iceberg e come eccentrica manifestazione del visibile che tende, normalmente, a comprimere e nascondere tutte le “relazioni” e le spinte che l’hanno alimentata fino al suo emergere.
Per questo, ogni processo e il sistema di cose che lo sorregge, dovrebbero il più possibile essere proiettati ad attivare quell’osmosi tra il livello micro e il livello macro, in ambito drammaturgico, di cui in Italia si sta iniziando per fortuna a discutere proprio in questi termini 1.
Nella mia esperienza di collaborazione con la Lavanderia a Vapore, e in particolare con il progetto Excelsior, impiantato nella struttura della Lavanderia, è proprio la possibilità di sviluppare questi due livelli della ricerca drammaturgica che ha orientato il focus dell’intero progetto.
Il livello micro, come dicevo, si riferisce più all’opera stessa – quella che per consuetudine siamo abituati a pensare, appunto, come una vetta – cioè l’esito scenico-performativo. La considero micro perché più circostanziale, cioè legato ai codici impliciti alla scena, al suo linguaggio e dunque ai suoi livelli di scrittura. La funzione macro invece riguarda il contesto o meglio i contesti. Contesto inteso come sistema di riferimento entro cui ha origine un processo creativo e che grazie al vostro modo di lavorare, per esempio, ho avuto modo di approfondire. Il contesto quindi non è la cornice di un evento o di un processo, ma costituisce il processo in sé.
Per questo, in senso ideale, il livello micro e quello macro di una ricerca artistica non sono mai scindibili; l’uno informa l’altro. E seppure l’applicazione di questi due livelli si manifesta secondo dei formati “produttivi” a volte apparentemente distanti fra loro (workshops, spettacoli, pratiche di relazione e coabitazione, installazioni, panel discussions, ecc..), è fondamentale allenarsi a non pensarli come gerarchicamente subordinati allo svettare dello spettacolo; la loro “prestanza” non può essere relegata nella sola cornice “rappresentazionale”. Urge, pertanto, rendere flessibili e porose le politiche culturali dei contesti che ospitano la creazione contemporanea e, come accade da tempo per la Lavanderia a Vapore, impiantare pratiche curatoriali e traiettorie di innovazione culturale capaci di accompagnare questa necessità.
Mi hanno detto spesso ironicamente che il mio rapporto con la creazione artistica è lo stesso che i contadini hanno con il maiale: ovvero che tendo a non buttare via niente. Di certo reputo un valore quello di riuscire a ottimizzare ogni aspetto, in termini materiali, produttivi ed economici. Ma nel mio caso – essendo per altro vegetariano – vorrei allontanare questa metafora e argomentare il vero movente di tale attitudine: il mio più grande desiderio è contribuire a disattivare i meccanismi di potere che si insidiano nel processo di creazione e il primo meccanismo di potere per me è quello che definisce un esito scenico secondo una funzione gerarchicamente superiore ad altre possibilità di interazione. Quello che cerco di depotenziare, anche nei miei lavori scenici, è la retorica dello spettacolo come unica protuberanza rispetto al sistema (secondo un tic capitalistico che ha determinato nel tempo l’affermazione della dittatura degli “oggetti” e la loro conservazione quasi museale).
Per questo il livello micro, anche quando finalizzato alla costruzione dell’“oggetto-spettacolo”, non vorrei mai che si affermasse come superiore o predominante rispetto al livello macro. Per me sarebbe un fallimento pensare che il mio lavoro si esaurisce solo su uno dei due aspetti.
Spesso questa affermazione viene fraintesa come la smania a volere a tutti i costi incarnare un doppio ruolo: artistico e curatoriale. Ma anche questa interpretazione del fenomeno è orientata da logiche che identificano i ruoli come monolitici e come dispositivi di potere. Io, al contrario, non amo le classificazioni binarie e dunque: da una parte non vedo nessun ostacolo nell’affermazione di figure artistiche-curatoriali (il sistema italiano e non solo è pieno di esempi virtuosi), e dall’altra, allo stesso modo, sono consapevole che non tutti gli artisti debbano, possano o vogliano concentrarsi in prima persona anche su questo livello. Credo semplicemente che non è più il tempo per incasellamenti rigidi e che sia arrivato inemendabilmente il momento, per ogni artista, di non separare estetica ed etica e dunque di essere sempre a fuoco sulla politica culturale che con il nostro lavoro stiamo delineando rispetto ad un determinato sistema. Non si può non avere posizioni in merito e non si può solo delegare.
Questo tipo di “postura” determina una relazione specifica con i curatori e le curatrici che si possono incontrare durante il proprio percorso. Ed ecco che tornando alla Lavanderia a Vapore, i termini di crescita sia professionali che umani, per me significano proprio questo, cioè lo sviluppo di una peculiarità. Ovvero poter impiantare, per esempio, un processo in sala a partire dal più usuale assetto che prevede training e prove quotidiane, ma allo stesso tempo da lì articolare una serie di sguardi e relazioni con la struttura, l’istituzione in questione – che mai dovrebbe essere confusa con il vuoto-istituto – che ovviamente è animata a sua volta da una serie di meccanismi, dinamiche, competenze, attraversamenti e aspettative che dovrebbero essere soprattutto sociali. Quindi questa postura diventa il desiderio di farsi attraversare e permeare anche da queste aspettative e non da sole proiezioni ego-riferite e ombelicali.
Il “condizionamento” operativo da parte di una realtà come la vostra è, per me, l’esercizio di una “forza” di segno positivo che completa il training della creazione in atto, spingendo a spostarsi da quell’individualismo che i sistemi produttivi un po’ a volte istigano, cioè quello di pensarti come un organismo-creatore, secondo un preciso disegno ottocentesco dell’artista.
L’incontro delle rispettive aspettative, le mie personali come artista, quelle di contesto (quando opportunamente circostanziate e determinate da logiche di politica culturale “reale”) manifestano delle forze che sono più facilmente traducibili in pratiche.
Ed è per questo che siamo riusciti a situarci in maniera comoda dentro delle coordinate che voi avevate già sott’occhio, per esempio nell’interazione col territorio: partire da un ventaglio di possibilità già in atto e cercare di calarle dentro le specificità di un progetto e viceversa. Anche qui il concetto reciprocità ha assunto la sua concretezza, perché come artista ho iniziato il mio lavoro in Lavanderia con un bagaglio di competenze e aspettative rispetto al mio processo creativo – e lo stesso anche voi – denso di strumenti e riferimenti, che ci hanno spinto a non pensare la nostra relazione come vergine e a tenere conto di una serie di caratteristiche sistemiche, politiche, culturali che avrebbero creato la nostra reciproca “drammaturgia”.
E per completare la mia risposta alla vostra domanda: nella relazione con voi questo desiderio di reciprocità riesco ad attivarlo. Riesco a percepire in una maniera che non mi provoca disagio il rapporto artista/curatore. Questo non è secondario, perché in alcuni contesti, dove questa dinamica tra le due figure avviene in modo tossico è piuttosto difficile non mettere in discussione proprio la legittimità dei ruoli. In un contesto così permeabile, invece, come quello che voi state generando in questi anni, personalmente mi sento spesso invitato a dare un contributo che è anche, di riflesso, inevitabilmente co-curatoriale. In questo procedimento essenzialmente empatico si colloca la definizione di reciprocità.
Io, noi, gli altri e le altre, i nostri spesso inaccessibili edifici, le nostre strutture di pensiero eminentemente coloniali, le nostre spesso rigide griglie ontologiche, il pubblico e i pubblici, dobbiamo insieme attrezzarci, ripensarci, riorganizzarci e determinare una politica, per citare Donna Haraway, di “co-responso-abilità”: questo è il sistema adescante. Di questo sento che ci stiamo preoccupando. E ok così! Poi la cosiddetta opera e il suo esercizio di potere, forse, alla fine abboccherà.
1. Il Centro di Promozione della Danza Anghiari Dance Hub, per esempio, sta curando un progetto dedicato proprio a Micro e macro drammaturgie della danza, che ha già avuto una sua occasione di discussione pubblica il 26 luglio 2020, a Sansepolcro nell’ambito di Kilowatt Festival
Salvo Lombardo, performer coreografo e regista