Il percorso con gli/le student* della prima Liss Primo Levi di Torino si è articolato attraverso dibattiti, pratiche di ascolto, di movimento e coreografiche, pensate e sviluppate intorno ai temi centrali del progetto NOBODY NOBODY NOBODY. It’s ok not to be ok.
Quando ci è stato comunicato che la classe che avrebbe partecipato al progetto era una prima, per noi è stato un momento carico di dubbi e interrogativi da sciogliere: si trattava di ragazz* molto giovani e, soprattutto, di un gruppo che gruppo non aveva ancora avuto la possibilità di diventarlo. Avremmo lavorato e riflettuto su dinamiche collettive e su come queste venissero incorporate e tradotte fisicamente dai singoli con persone che, tranne in rare occasioni, non avevano neppure condiviso il medesimo spazio fisico. La classe, nucleo centrale del nostro lavoro, esisteva solo parzialmente, sia per età che per condizioni esterne. Allo stesso tempo, però, questo ci avrebbe permesso un ingresso ‘gentile’ all’interno di relazioni che erano significative solo in potenza, di interazioni che, forse, non si inscrivevano ancora all’interno di gerarchie rigide e sedimentate, spesso complesse da smascherare e decostruire. A partire dall’esperienza autobiografica di Daniele Ninarello condivisa con la classe durante il primo incontro, uno degli obiettivi prefissati era di costituire un campo di relazioni basate sul sentire empatico, sull’immedesimazione, sulla possibilità di relativizzare alla propria dimensione intima i temi attraversati, rispettando lo spazio e il tempo di ciascun*. La stessa esperienza è stata poi raccontata qualche incontro più avanti, a molt* altr* student* durante un incontro online, con l’obiettivo di allargare lo sguardo e sensibilizzare quante più persone possibili verso questa proposta. Il primo giorno abbiamo creato uno spazio comune utilizzando un muro della sala coreutica dell’istituto, ricoprendolo interamente di carta. Questo muro rappresentava lo spazio pubblico, quello aperto e condiviso da tutt*, in cui ognun* de* partecipanti poteva portare una parola, un contributo personale, o ritrovarsi in altri contributi messi a disposizione dal gruppo. Parallelamente, ognun* di loro era spesso invitat* a prendere nota privatamente di ciò che l* colpiva o interessava. In questo modo si è cercato di sottolineare le differenze tra ‘spazio intimo’ e ‘spazio privato’, questioni che spesso ritornavano nella gestione delle pratiche fisiche, così come nella partecipazione ai dibattiti. Questa differenziazione è servita anche ad esplorare i concetti di isolamento, abbandono e vulnerabilità da una parte, e di alleanza reciprocità e cura dall’altra.
Dal punto di vista delle riflessioni e dei dibattiti, abbiamo optato per un approccio non verticistico, mai frontale o esplicitamente didattico. Partendo da alcune domande, più spesso da alcune provocazioni, è stato chiesto ai/alle partecipanti di esprimersi su alcuni temi, sottolineando la necessità di mettere a nudo i propri pensieri, in uno spazio protetto, senza optare per reazioni e opinioni reputate socialmente accettabili. Nel corso del tempo, abbiamo potuto notare l’emersione di riflessioni via via più profonde, più elaborate. Così come abbiamo notato la spinta a riconoscersi come gruppo, a sostenersi, e a mettersi in discussione a vicenda.
Con loro non sono state condivise le ‘tappe’ del percorso di riflessione che avevamo in mente, per due ordini di motivi: da un lato, si trattava di un percorso ‘elastico’, influenzato dalle questioni che emergevano in corso d’opera e, dall’altro, volevamo preservare una sorta di spontaneità che ha fin da subito caratterizzato il lavoro con il gruppo. In altre parole era per noi importante che ciascun* dei/delle partecipanti riuscisse non solo a sentirsi a proprio agio ma percepisse potenzialità e responsabilità nel/del percorso. Diversi i temi trattati: violenza maschile sulle donne, body e slut-shaming, omo/lesbo/bi/transfobia, abilismo, linguaggi e ironia come strumenti di offesa e prevaricazione, violenza online. Il tentativo, che ha attraversato ogni singolo incontro, è stato quello di portare il gruppo a tradurre sul, nel, con il corpo il percorso di scambio avvenuto durante i dibattiti, lasciando spazio alle dimensioni conflittuali, di protesta, di dolore o di liberazione.
Il training proposto alla classe comprendeva esercizi di risveglio del corpo e di riscaldamento muscolare, pratiche di attenzione e di ascolto della presenza di sé e degli/delle altr*. Le fasi di ricerca sul movimento si sono sviluppate insieme, attraverso proposte veicolate per attivare un immaginario collettivo che l* riguardava in prima persona.
Attraverso i dibattiti e le riflessioni di gruppo sui temi sopraelencati, e con particolare attenzione alle dimensioni della rabbia e della protesta, abbiamo accompagnato gli/le student* nella creazione di materiale fisico attraverso cui sperimentare le sensazioni e le emozioni che questi temi generavano, tanto collettivamente quanto individualmente. Questa ricerca sul materiale è servita per costituire un archivio collettivo, una serie di movimenti, azioni e gesti, organizzati successivamente in forma corale ma sperimentati anche in solitudine per continuare ad esplorare i concetti di isolamento, abbandono e vulnerabilità da una parte, e di alleanza reciprocità e cura dall’altra. Altri esercizi sono stati proposti con l’obiettivo di rafforzare i legami nel gruppo, e nel tentativo di sciogliere tensioni e pregiudizi e creare un gruppo solido e amichevole. Un dialogo incessante tra dimensioni biografiche e letture collettive, dunque, che ha preso voce attraverso i loro corpi.
Daniele Ninarello, danzatore e coreografo, e Mariella Popolla, sociologa