Si pubblica qui di seguito un breve testo programmatico proposto da Salvo Lombardo, artista associato della Lavanderia a Vapore, in occasione del lancio della stagione 2022/ ’23. Un invito a ricercare – chiosa il coreografo e danzatore – «uno spazio in cui intrecciare nodi a partire da nodi […]. In cui non risolvere la piega e in cui, soprattutto, respirare».
«Abbiamo la pretesa che un artista plasmi la nostra immaginazione, ma non dimentichiamo che un artista non può lavorare una materia che non gli offre alcuna resistenza plastica».
Questa chirurgica sentenza, che Edgar Wind scrive nel suo Arte e Anarchia, mi dà la possibilità rinnovare una domanda, ovvero quali siano, per me, oggi, le “materie” che mi offrono quel gradiente di resistenza plastica che è necessario per spostare i miei processi di creazione e il mio lavoro artistico dall’insidia della vacuità e del solipsismo?
Penso, prima di tutto, a quell’intreccio inscindibile e generativo tra la materialità del tempo e dello spazio, ovviamente, in rapporto all’esercizio dello sguardo. Tempo-spazio-sguardo: sono tre nozioni che scivolano “simpaticamente” (uso questo termine in senso etimologico) nel campo della relazione.
Cos’è la relazione per me? Credo sia un’altra matassa inestricabile di nodi, proiettata ad attenuare la guerriglia tra oggetti e soggetti del mondo. La relazione e i suoi sistemi, la relazione e le sue pratiche, la relazione e le sue estetiche. Relazione come campo aperto, oltre i dualismi binari. Relazione come emergenza di rinnovate prossimità (umane e non umane).
Il tempo invece, dal canto suo, apre ad un altro livello di molteplicità; poiché il tempo, nel lavoro artistico, si declina sia come “intervallo di realtà” che di volta in volta mi accingo a guardare (il mio presente, per esempio), sia come quella porzione di tempo, materiale e misurabile, necessaria alla messa in opera del mio sguardo sul tempo stesso.
E infine, non in ultimo, la questione dello spazio, che non è una categoria astratta ma al contrario informata da una serie di coordinate fondamentali: dove mi situo nel guardare le cose? Qual è il mio campo di enunciazione? Quali altri soggetti sono inclusi? Da quale posizione osservo e agisco? Quale postura assumo nell’occupare spazio o nel liberarne?
In questo senso, il mio rapporto con la Lavanderia a Vapore in questi anni ha assunto la connotazione di occupazione transitoria di uno spazio ideale: capace di valorizzare le categorie che informano i processi di creazione e che ho nominato finora.
Ideale perché, ai miei occhi, perennemente edificabile e abitabile in maniera corale. La sua articolazione è in grado di manifestarsi, di volta in volta, nella costruzione di una “durata reale”, come la definisce Henri Bergson, ovvero nella possibilità di generare un flusso delle esperienze in questione il più possibile eterogeneo, non per forza lineare (dunque non astratto) e soprattutto nutrito dalle soggettività di chi lo anima, come a farsi prolungamento del campo di presenza e di azione di ciascuno dei soggetti coinvolti.
Uno spazio che può al contempo dare espressione alla manifestazione visibile del lavoro artistico (le opere) ma che è desideroso di generare processi che possano, volendo, non essere preludio di alcuna opera, impermanenti nella tessitura di ciò che può sembrare l’invisibile.
Questo spazio che sto evocando, rispetto alle logiche produttive usuali e diffuse, si articola nella dimensione del “prima” e si qualifica nella categoria del “in-sé”. Viene naturale dunque provare a declinare con scioltezza il tema della cura e quello della reciprocità applicato a questo contesto e al mio modo di attraversarlo ricevendo e offrendo atti di cura.
La cura, in questa prospettiva, si realizza con la definizione di perimetri relazionali che si propongono di mettere in connessione, in un’ottica “inter-culturale”, contesti, storie, sguardi, provenienze, spesso anche non allineate o prossime, per creare nuove alleanze e far atterrare tanto le opere quanto i processi, in un più ampio sistema di risonanze – simpatiche, come dicevo. Allora è così che nella mia esperienza finora uno spazio della cura come questo è al contempo ambiente domestico e sfera pubblica; è una “contact zone”, dove liquidare i confini tra il deposito affettivo e l’emersione pubblica delle pratiche, dei concetti e dei gesti che invadono il lavoro artistico. Uno spazio in cui intrecciare nodi a partire da nodi, come direbbe Donna Haraway. In cui non risolvere la piega e in cui, soprattutto, respirare.