Il desiderio struggente di comunità. I detriti e le rovine di un mondo a pezzi. Un passato che diventa baluginio del futuro, giacché non coincide con il presente. Questi e molti altri sono i nodi generativi alla radice di The present is not enough di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo, in residenza da 10 al 21 gennaio scorsi alla Lavanderia a Vapore. Il lavoro dà spazio, voce, forma e luce ai corpi, al loro disporsi, alle potenzialità di una comunità senza norma. Corpi nudi, abbandonati, vulnerabili. Che scrittura può diventare tutto ciò? A tentare di tradurre la visione in parola scritta sono statə alcunə dance-writers provenienti dall’Università di Torino e dalla Scuola Holden, parte della redazione itinerante del progetto We Speak Dance. Le giovani penne hanno avuto l’opportunità di assistere a una prova aperta della creazione la sera del 19 gennaio, presso il Centro di Residenza di Collegno.
Ho visto un documentario su un polpo. breve. degli anni sessanta. la voce parlava francese, capito poco, nulla direi. ma aveva un andamento terrorifico, da horror. sussultavo ad ogni attacco di frase. il polpo aveva la granulosità metallica della pellicola in technicolor. per via della voce narrante, e anche della sonorizzazione, sembrava un assassino. si muoveva, pericoloso, sui fondali, tentacolare. vischioso. ma del resto era un polpo, faceva il suo lavoro. chissà, se era sempre lo stesso polpo. me lo chiedo spesso, quando guardo i documentari. se il polpo di cui seguiamo le vicende, il leone acquattato, il coleottero melolontha siano sempre lo stesso polpo lo stesso leone lo stesso coleottero. o non siano individui diversi, ripresi in momenti e magari anche in luoghi diversi. sarei in grado di distinguerli l’uno dall’altro? e che cos’è, che sappiamo distinguere con certezza?
Note drammaturgiche
Alcune cose che ci interessano. I disturbi della memoria. Proprio le interferenze, i buchi. La solitudine, ma forse al plurale: le solitudini. Una serie di solitudini. Molto spazio vuoto attorno a un corpo. I battuage. Un’utopia dei corpi di cui non abbiamo esperienza.
Forse potremmo cercare una zona comune, di indiscernibilità, e iniziare ad abitarla.
O forse invece ciò che separa e distingue un disturbo, da una condizione, da una scopata.
D.W. in un suo lavoro cuce insieme due pezzi di pane raffermo, con un filo rosso. Per rifare l’intero, impossibile. Per fermare la vita, dilazionare la morte.
O forse potremmo buttare tutto alle ortiche. Sono fortunate le ortiche. Hanno tante idee scartare di cui nutrirsi.
di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo
con Giacomo AG, Tony Allotta, Silvia Calderoni, Ilenia Caleo, Gabriele Lepera, Federico Morini, Ondina Quadri
cura e produzione Elisa Bartolucci
consulenza drammaturgica Antonia Ferrante e moltx amicx praticanti
residenze artistiche e co-produzioni Mattatoio Roma, Festival Buffalo (Roma), Kampnagel (Hamburg), Vooruit (Ghent), MotusVague
Ripresentarsi ancora. Vi rincontro in 3000 caratteri e altri ancora…
di Michele Pecorino
È tutto lì, tutto in scena. Il gioco di sguardi, che arriva dai performer, inizia fulmineamente. Introdotto il primo piede in sala, si entra in una dimensione, o meglio dire all’interno di un’essenza comunitaria, dove quel limen, che separa la realtà dal sogno utopico, è continuamente in fuga. Quella soglia di confine si rincorre perdendosi e ritrovandosi a sbirciare se stessa. Non si è mai pienamente consci di quello che sta accadendo. Si è tutti sospesi su un filo di sguardi. Ci si abbandona alla ricerca di un momento di uscita da se stessi.
Le sedute, consistenti in pezzi di gommapiuma, poste su tre lati della scena, permettono una visione dal basso, alla pari con lo sguardo dei performer. I riflettori, su stativi mobili muniti di rotelle, si accendono. La scena si frammenta, le ombre iniziano ad insinuarsi tra le viscere della curiosità dello spettatore. Le prospettive di sguardo si moltiplicano. Tutti i corpi si stagliano, seminudi, davanti agli occhi dei presenti. Gli sguardi fanno inevitabilmente i conti con la memoria. Ad ogni battito delle palpebre, quell’attimo appena vissuto, svanisce. A restare è il ricordo, più o meno sbiadito, di un’impressione. Forse, a rimanere, è la sensazione di quell’incontro, così effimero quanto carnale. Le tracce nei corpi-spettatori rimbombano nel sentire un piacere estemporaneo. Nessuna sovrastruttura ingabbia ciò che accade.
Si è agli antipodi del normato, in una partitura che si dipana mediante l’incontro. Lo spettatore, perdendo ogni sovrastruttura culturale, si inerpica in sentieri, spazio-temporali, dove a giocare un ruolo fondamentale è l’incontro. Dai primi istanti si apre un mondo parallelo dove lasciarsi condurre, dall’allusione, in un racconto composto da movenze e sguardi intensi. Ciò che avviene non è soltanto in scena, ma riguarda tutta la stanza. Non si è più in un luogo, ma in uno spazio fatto di corpi, di oggetti. Il pubblico diviene parte indispensabile della performance. Mentre tutto intorno è distrutto, mentre crollano gli ultimi ingranaggi arrugginiti di una civiltà abbandonata, si costruisce una memoria del corpo, del piacere.
THE PRESENT IS NOT ENOUGH è un lavoro dove non c’è la parola, ma mai come in questo caso è estremamente emergente e traboccante dai corpi nudi. ogni presenza trasuda parola. Ad ogni passo, ad ogni cambio di scena, emerge il desiderio di costruire una comunità. La scena muta continuamente per mano dei danzatori-performer, le luci che un attimo prima illuminavano, adesso abbagliano. La visuale che prima era sgombera adesso è occultata. Si rende necessario così dover sbirciare, dover rincontrare quegli sguardi sconosciuti, capaci di prendersi cura di te che stai a guardare.
Ogni occhiata è capace di innescare differenti livelli di godimento fugace. L’intera performance è un incontro diretto che genera continuamente nuove forme di vita. Necessarie per poter accedere ad un mondo Altro. Ogni sguardo, un déjà vu. Un ricordo che si faglia nella ricerca di un attimo.
The present is not (always) enough
di Martina Vianoni
New York, anni ‘70. La comunità queer è solita ritrovarsi ai Piers e ai Docks, edifici derelitti e moli abbandonati, adagiati sulle rive dell’Hudson. Si prende il sole, si conversa — di vita, d’arte, del più e del meno — si scattano foto, qualche occhiolino, un sorriso, si scopa. Semplicemente si sta, per lo più nudi. Senza vestiti e senza giudizi.
The present is not enough di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo ci porta in questo battuage: T-shirt vintage, calzini di spugna a strisce colorate, sacchetti di plastica con dentro qualche indumento — quelli che non si hanno indosso: tutto il resto è pelle nuda. I proiettori in scena, il sole.
La nudità non è ostentata, solo esposta. Semplicemente sono, questi corpi, come sarebbero sulle rive dell’Hudson: prendono il sole dei proiettori, li spostano a illuminare ciò che rimarrebbe in penombra, si sdraiano, siedono, rotolano. Poi si guardano, ci guardano. E lo spettacolo si consuma qui, nell’apparente immobilità di questo accadere. Uno smottamento continuo camuffato da assenza di movimento, grande quiete in superficie, una stasi, ma sotterranei alla superficie organi in subbuglio, correnti di sguardi, casse toraciche in espansione e altre faccende più piccole — mignoli, unghie, ciglia. Fa presto un accenno, nella rarefazione, a trasformarsi in uno tsunami. Alla faccia dell’immobilità.
Lo spettacolo continua a gonfiare, accumulare, caricare, e sul finire scocca: dietro un muro di pannelli improvvisato si celebra un fuoco d’artificio, un amplesso di sobbalzi ripetuti, vicinissimi, instancabili, poco più che saltelli tecnicamente, ma la resa evocativa è cristallina, e potente. Quando entra in scena la regista, acquattata fino a quel momento nello spazio scenico riservato alla consolle del sound, ecco il climax – mi dico – fisiologico e inequivocabile, dello show.
Eppure il punctum si sposta altrove, del tutto inatteso: nel tirare su il muro, prima dell’apoteosi dionisiaca, hanno lasciato uno spazio. Una feritoia, per lasciarci sbirciare. E da quella feritoia, improvviso: un braccio. Disteso, abbandonato a terra. Punta nella nostra direzione. Il pubblico, che finora ha solo intravisto, senza davvero vedere, viene raggiunto. Come venisse chiamato, puntato. Una signora si alza e percorre un pezzo del ferro di cavallo che è dedicato alle sedute degli spettatori, si porta dove il suo sguardo può spaziare – oltre il muro. Deve osservare, deve svelare. D’altronde le è consentito, la scena è pensata perché ci si possa posizionare dove meglio si crede e anche, all’occorrenza, spostarsi. È qui che penso: senza feritoia, senza muro, non si sarebbe alzata questa donna, non avrebbe sentito la spinta animalesca partire dalla testa ed esondarle nel corpo, fino a spingerla a spostarsi, fisicamente, a trovare il punto esatto in cui abbeverare il proprio sguardo. È sempre una qualche feritoia, dunque, a invitarci a entrare? Com’è che alle porte spalancate ci affacciamo così poco, e con meno piacere? È l’entrata scomoda a chiamarci, l’accesso che richiede uno sforzo, un adattamento, una lotta? Ci portiamo dove l’istinto ci ammalia, purché richieda uno procedere sui gomiti come soldati in trincea. Altrimenti stiamo, semplicemente stiamo.
Da questa strettoia abbiamo intravisto il passato, oggi. Ma se tutta questa fluidità ci chiamasse a scivolare nel futuro? Un futuro che possa, finalmente, essere enough.
E allora chi si spinge in questo anfratto di domani? Sembra impervio, difficile, faticoso. Ma sai che fuochi d’artificio, dopo? Oh, che fuochi d’artificio, dopo.
Più vite, da un presente immobile
di Maria Rosaria Visone
19 gennaio 2023, ore 18:00. La città di Collegno è desolata, gelida. Eppure, a due passi dal silenzio, c’è modo di scaldare il cuore: basta oltrepassare le porte della Lavanderia a Vapore.
Proprio qui, dopo un periodo di residenza artistica, le due performer Silvia Calderoni e Ilenia Caleo hanno restituito a un pubblico ristretto un ulteriore studio di “THE PRESENT IS NOT ENOUGH”, svolto in sinergia con i/le performer Giacomo AG, Tony Allotta, Gabriele Lepera, Federico Morini e Ondina Quadri.
L’universo del lavoro si presenta sin da subito libero da regole e strutture formali: qui c’è da spogliarsi dell’ordinario, togliersi le scarpe e sedersi a un passo dalla scena (magari a gambe incrociate), consapevoli che – mai come in questo caso – la scelta del posto a sedere non sarà banale: il mondo urbano, quasi onirico e inafferrabile di Calderoni e Caleo si riempie infatti di più significati, a seconda dei molteplici punti di vista del pubblico.
Quello dipinto dalle due artiste è un passato nostalgico, dove la percezione del binomio tempo-vita si altera, a tratti si annulla. Ci si affaccia a un microcosmo dimenticato, lontano dal quotidiano e dal sentire comune ma che è nostro, ci appartiene. Perché – senza negarlo – siamo carne viva, avvolta insieme da mistero e fascino, tra le strade condannata spesso a occhiate critiche sconosciute. Eppure, carne che costruisce un corpo, teatro e dimora del nostro vissuto, del nostro presente: perché allora non provare a cullarlo, abbracciarlo, apprezzarlo, quel corpo? Una domanda di apertura, un’esortazione che Federico Morini porta ai nostri occhi in tutta la sua forza scenica: con un fare e un esplorare da bambino, si porta alle labbra l’alluce, assaporandolo più volte delicatamente. Uno scenario morbido e soave, spezzato inaspettatamente da Giacomo AG che irrompe di schiena a gattoni verso il pubblico, quasi abbattendo una parete invisibile: nel suo sguardo già scorrono le immagini afrodisiache che si dispiegheranno sulla scena nei minuti immediatamente successivi.
Così, alla luce fioca e al silenzio subentrano un buio pesto, una musica che richiama il punk rock degli anni ’70: quando le luci si riaccendono siamo sui piers del fiume Hudson, a pochi passi dal traffico cittadino newyorkese, nei luoghi urbani dimenticati e abbandonati di Stanley Stellar, dove l’edonismo governa la luce del giorno. Un Eden nascosto di corpi in attesa di appagare i sensi. Corpi vivi, corpi pieni: di fantasie, incastri, desideri. Dalla scena, occhi vispi e vigili sussurrano, chiamano, si mescolano agli occhi del “mondo di fuori”, offrendo esperienze erotiche individuali. È un incrocio intimo, segreto, un momento di scambio tra chi si osserva. Gli sguardi e i corpi dei/delle performer sono aperti, pronti a raccontare, a domandare ma a non approfondire troppo: il pubblico deve ricordare che si tratta di visite occasionali, di flirt destinati a rimanere incompiuti. Variano le angolazioni, cambiano le strutture, mutano le postazioni e le posizioni, ma la linfa iniziale resta. Appena dietro gli occhi, sulla pelle, nel petto.
Si aprono e si chiudono ambienti, confini dotati di fessure e spaccature: di queste ultime, una farà la differenza. È la crepa del muro di pietra. Al di là, un movimento corale nuovo, più intenso, irrequieto e incontrollato prende vita. È un tumulto che cresce gradualmente, fino a far cadere a pezzi l’enorme barriera e a propagarsi in altri luoghi, altre menti, altri sguardi.
E nel mondo reale?
Sentito mai di movimenti umani capaci di abbattere intere “sovrastrutture”?
Probabilmente in passato. Adesso è il presente.
Cosa è cambiato da allora?
Se questa domanda ancora ci disorienta, forse è proprio così: il presente non è abbastanza.
Pagina di diario del 19 gennaio 2023
di Federica Siani
Dopo un viaggio un po’ trafficato, arrivo in Lavanderia una quindicina di minuti prima delle diciotto.
Dopo qualche chiacchiera con persone amiche realizzo di non essermi documentata -o voluta documentare (?)- neanche su questa performance.
Ci avviamo in stireria. (Sono qui per assistere ad una prova aperta di “Present is not enough” di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo).
Entriamo nella prima stanza, accolti dalle due coreografe, insieme con una serie di foto e libri e diapositive che in un primo momento non ci vengono presentati, ma viene spesa solo qualche parola di presentazione sul progetto.
Si entra nella seconda stanza, luogo della performance.
Mi siedo sul cuscinetto-che ammetto di aver trovato un po’ troppo duro, ma da cui comunque non mi sono schiodata per l’intera durata: un’ora-.
Veniamo accolti da un primo attante che, vestito di una sola maglietta, esplora con la bocca il pollice del suo piede.
-al momento non sappiamo il numero di performer/perfomesse che abiteranno lo spazio-.
Entra Ilenia e abita la sua zona-rifugio: la regia. Si occuperà lei della musica, del suono e parte delle luci -solo una parte perché sono gli altri abitanti a modificare in scena la posizione e i colori degli illuminatori-.
A poco a poco lo spazio performativo viene abitato fino ad essere sette gli esseri umani che vivono, modificano e creano questo luogo. E per farlo, hanno a disposizione il loro corpo, lo spazio di cui mutano costantemente le geografie e un sacchetto di plastica ciascuno, come deposito-bagaglio dei propri indumenti.
La performance termina in un picco emotivo. In sala tra i pochi presenti invitati percepisco una piccola esitazione prima dell’applauso. – io ho fatto fatica a rompere la relazione creata insieme con loro e con lo spazio e con gli oggetti presenti-.
Abbandono la Lavanderia, carica di emozioni e un po’ senza parole.
Nella serata di giovedì ho partecipato ad un evento forte.
Ho attraversato paesaggi di cui non vedevo l’esistenza.
Ho sentito sguardi presenti su di me e a cui ho cercato di rispondere sinceramente.
Ho sentito un po’ di fastidio, subito, ma poi di fascinazione e poi di dolore.
Sguardo;
Corpo;
Nudità;
Essere umano;
Verità nascosta e rivelata;
Forza.
Questo evento performativo mi ha condotto verso nuovi mondi, utopici forse perché troppo reali.
Di solito, uso i viaggi in macchina in solitaria per riflettere sulla vita, su di un evento o su ciò che mi passa per la mente.
Quel viaggio in macchina è stato anch’esso silente.
Dopo quasi una settimana e dopo essermi documentata -direi abbastanza- sul progetto, eccomi qui a cercare delle parole per “Present is not enough”. Scritte tutte di un fiato.
E dalla pancia.
Una pagina di diario e di sensazioni del 19 gennaio 2023.