25 Lug 2023

Kadri Sirel: un nuovo sguardo sulla documentazione dei processi artistici

Kadri Sirel è una coreografa e performer estone, i cui progetti affrontano per lo più il tema della produzione, in prospettiva site-specific. Tramite il corpo danzante, Kadri indaga la tensione tra desideri individuali e sociali. I suoi metodi includono improvvisazione e pratiche somatiche, documentazione e co-creazione. Ha svolto i propri studi presso il Dipartimento di arti coreografiche della Viljandi Culture Academy (EST), conseguendo un master alla Home of Performance Practices presso l’ArtEZ University of Arts (NL). Nel gennaio 2023 approda alla Lavanderia a Vapore di Collegno per un internship.

ph. Ave Palm

Arrivare in Lavanderia è stato un po’ come sentirsi “lost in translation”. Battute a parte, l’ho trovata fin da subito una realtà accogliente, porosa, in cui dedicarmi – fra mille stimoli – al mio lavoro di documentazione. Sono anche coreografa e danzatrice: ed è stata appunto questa la mia chiave d’accesso alla documentazione. Torino la conosco da tempo: venni qui per la prima volta nel 2016 per partecipare ai laboratori della Nuova Officina della Danza, programma di formazione che in parte si era svolto anche in Lavanderia. Ho visto peraltro molti spettacoli qui. Insomma, quando è iniziato il mio tirocinio, la Casa della Danza mi era già piuttosto nota. Ne conoscevo le radici, il passato di antico ospedale psichiatrico, una storia mai taciuta e anzi raccontata con trasparenza, nel passaggio da luogo di coercizione a spazio di libera creazione.

Venendo a parlare del mio approccio alla documentazione, non so dire se sia diverso o in qualche modo interessante. Sicuramente il punto di partenza era non sapere minimamente di che cosa si trattasse, non avendola mai praticata prima. Mi ci sono avvicinata da amatrice, da dilettante. Come ho detto prima, lavorare nella danza è stato il motivo per cui ho scelto di aprirmi alla documentazione: era qualcosa di automatico, di collegato al tentativo di dischiudere ciò che la danza può essere e diventare. Quindi il modo in cui “documento” intrattiene una sorta di relazione con tale assunto: documentazione e danza possono intrecciarsi, incontrarsi, al di là delle consuetudini?

Nel corso di questi mesi ho seguito numerose residenze e diversi processi artistici in atto, accostandomi pertanto a stadi ancora altamente vulnerabili della creazione coreografica. Non ho documentato prodotti, per così dire, finiti, in primis per mancanza di interesse nei confronti di questo tipo di formati. Preferisco osservare il modo in cui si genera la comunicazione in sala prove, nella relazione tra autore e performer. Guardare come le idee si nutrono ed esprimono. Senza sapere che cosa rimarrà e che cosa invece andrà perduto. Penso sia proprio questa la parte stimolante del mio ruolo di “documentatrice”.

Che strano titolo, poi… ha l’aria di essere così ufficiale. Io, semplicemente, osservo: porto il mio taccuino, il mio smartphone, una penna e prendo appunti (disegnando, scrivendo nelle Note del cellulare…). Vado naturalmente in sala prove quanto più mi è possibile, a seconda dello sviluppo di ciascun singolo processo. Lasciata la sala, di norma do avvio a una fase di ricerca su differenti materiali, mettendo a frutto le note collezionate. Le riciclo e le riscrivo su fogli di carta artigianali. È una sorta di trasmutazione di codice. Qualcosa che pertiene a uno specifico momento nel tempo: sì, perché la documentazione si collega anche alla nozione di ricordo, oltre che alla visione di un processo. Trasformo perciò gli appunti originari in qualcosa di diverso, tanto da rendere queste tracce iniziali pressoché indecifrabili, irriconoscibili. Spesso non si tratta tanto di fermarsi a quanto ho annotato, ma a ciò che quel materiale è diventato, tramite vari filtri. È dunque un processo articolato in due momenti susseguenti: potrei parlare di originale e post-produzione, di prototesto e opera.

Mi è capitato per esempio, con il lavoro di Flavia Zaganelli, di stampare testi su materiali organici come foglie e piante. Torna sempre, infatti, il richiamo a una certa tattilità. Penso che più che ispirarmi (il che implicherebbe il pervenire a un esito completamente diverso), questi lavori mia diano il la per una sorta di traduzione, nel senso etimologico del termine. Forse anche riscrittura, rimaneggiamento, è una metafora che funziona, perché non nego mai la mia posizione nell’atto di documentazione: non cerco di renderlo oggettivo, ma lascio emergere corpo e voce. Dalla residenza di Daniele Ninarello ho fatto germinare delle poesie; interessante anche il caso di The present is not enough di Caleo/Calderoni, che esplorava il punto di vista di due donne lesbiche in merito alla pratica (prettamente maschile) del battuage nella New York degli anni Settanta. Ecco, lì ho fatto due passi indietro, chiedendomi come una donna estone potesse relazionarsi con il punto di vista di due donne lesbiche sul tema. Cerco insomma di bilanciare la parte che riguarda me con ciò che vedo: non voglio parlare di me, bensì dell’effetto che la performance provoca, suscita, induce nello spettatore. Sei seduto in uno spazio e ti domandi perché sei legato a ciò che hai di fronte, nel qui e nell’ora. Che cosa risveglia in te? È una postura, un’azione di posizionamento.

Uno degli obiettivi è stato anche condividere con gli artisti questi miei lavori, fare in modo che i documenti realizzati non rimanessero lì a prender polvere. Li ho sempre intesi come uno strumento di dialogo, un modo diverso di comunicare, per offrire non tanto un feedback quanto una prospettiva di ricezione. A dire il vero non ho ancora ricevuto molti riscontri in merito, ma credo dipenda dal fatto che quanto propongo è “intenso” e serve dunque del tempo per processarlo. Di conseguenza, la non-risposta non implica per forza una reazione negativa.


The present is not enough

Anahit

Orgia / Healing together

e
Appunti per una comunità che Danza

LAVANDERIA A VAPORE