Laura Gazzani e Lorenzo De Simone, giovani danzatori e coreografi recentemente impegnati in progetti di residenza presso la Lavanderia a Vapore di Collegno, penetrano all’interno delle rispettive poetiche coreografiche, provando a riflettere sulla funzione in esse esercitata dalla sfera emotiva e dallo spazio pubblico di relazione.
In che modo la tua ricerca artistica si lega alla volontà di “ingaggio” emotivo delle persone a cui ti rivolgi o con le quali ti interfacci? Nella tua creazione, infatti, si affida uno specifico ruolo alle emozioni, intese quali “strumenti metodologici” (una visione – questa – particolarmente interessante, specie considerando la prospettiva corpo-centrica a cui di norma le pratiche di danza vengono ricondotte).
Laura: «Inizio col dire che Walter è nato da un mio forte bisogno emotivo, dalla necessità cioè di tornare a emozionarmi mentre danzo (o quando vado a teatro) e dall’urgenza di condividere tale motus con gli altri. La spinta principale da cui è germinato l’intero lavoro è stata comunque, in primis, la voglia di “dare possibilità” a un momento del tutto personale. Ero in casa durante il lockdown e avevo scelto – un po’ per svago, un po’ per darmi un tono in camera mia – di ascoltare un vinile di Strauss… Ne è discesa un’emozione forte, che mi ha spinta fino alla commozione, al pianto. Non potevo procrastinare: ho scelto di buttarmi e di seguire la rotta indicatami da quel segnale. In Walter mi servo così del valzer a mo’ di strumento per ricreare un ambiente di incanto e di incontro, pensato per gli esseri umani più disparati. Vorrei insomma dar vita a un ecosistema in cui i soggetti che lo abitano, che ne fanno esperienza, riescano a rintracciare il piacere dello stare insieme, quel puro e semplice ἡδονή di chi va in una ballroom per divertirsi o in piazza per incontrare un amico. Scambiarsi un sorriso, uno sguardo, a volte segreto, furtivo, mantenendo anche una certa segretezza. Come in una relazione fugace, in un flirt, in un incontro inatteso».
Lorenzo: «Variazione #2: Elogio alla Gentilezza si basa su una “drammaturgia scientifica”: il materiale presente nasce infatti da un processo di ricerca sviluppato nel corso del 2020. Partendo da alcuni laboratori con adolescenti, sono state create e selezionate 41 fotografie, disposte – mediante la somministrazione di un questionario e un’analisi quantitativa – in scala dalla meno alla più gentile e contestualmente suddivise in tre categorie. La specifica articolazione di questo corpus iconografico ha indotto nei soggetti una verificabile modificazione a livello percettivo in relazione al costrutto “gentilezza”. Le tre classi cui appartengono le foto sono COGNIZIONE, COMPORTAMENTO ed EMOZIONE. La sequenza categorica rivela innanzitutto come la gentilezza venga percepita attraverso l’emozione. Ma come esercitare l’emozione? Come fare in modo che essa diventi la linea di confine che permette di distinguere la gentilezza da altri comportamenti? Come condurla all’interno di processi corporei affinché il gesto, il movimento, in ultima istanza il corpo stesso, diventino gentili? Credo che una tra le possibili risposte (quella che ho scelto di sviluppare in quanto affine a me e al mio percorso) riguardi lo “spazio tra”, ossia quella dimensione liminale e apparentemente vuota tra due persone, tra due corpi, in realtà fortemente carica di immagini, sensazioni, aspettative, emozioni, pregiudizi, energia. In questo spazio entra ed emerge il concetto di “confine”: quanto l’Altra persona mi vuole vicino? Quanto lontano? Quanto e quando posso travalicare tale confine? Come posso farlo? Uno sguardo, l’avvicinamento di una mano, uno spostamento del proprio corpo in avanti o indietro, un respiro, uno stare accanto… Piccoli gesti, semplici, delicati, ma nondimeno densi e carichi di quell’ascolto, di quella profondità, di quello stato emotivo che consentono di dare sostanza, forma e colore all’inbetween. Obiettivo è incontrare davvero l’Altro, travalicando (simbolicamente) quelle linee di demarcazione (emotive più che fisiche) che ciascuno di noi possiede».
Come lo spazio pubblico diventa “agente destrutturante” (di forme e relazioni di potere), attivando canali di connessione e generando interferenze?
Laura: «Lo spazio pubblico che utilizzo è la piazza, intesa come luogo attraversato da miriadi di persone diverse che lì convergono. Lo spazio pubblico è per me un crocevia, un luogo di quotidiano scambio, vissuto sempre con sorrisi diversi, generazioni differenti: è un ambiente pregno di storia e di storie, che si vanno a costituire e dipanare giorno per giorno. Con Walter ho iniziato a dirottare la mia ricerca sul “cambio del punto di vista”, in relazione alla dualità pubblico/performer. La performance si crea infatti nell’ambiente che la ospita e chiunque sia presente è performer dell’opera stessa. Vorrei destrutturare ogni relazione che ci costringe in ruoli ben definiti e stabiliti una volta per tutte: il valzer, ad esempio, è in sé una struttura di potere… I danzatori dovrebbero attenersi a regole precise, spaziali e motorie. In Walter, perciò, sono partita da questo tessuto normativo, per la precisione dai tre dati all’apparenza più tangibili e restrittivi: il conteggio, il roteare in coppia e la relazione nello spazio. Approdo è stata la loro destrutturazione e la definizione di una nuova armonia entro uno spazio concentrico e attraente. La ricerca si muove così in un sistema coinvolgente pur nella sua rigidità, volendo creare un’esperienza totalizzante. Sono all’inizio di questo processo e so già che non è ancora giunto il momento di veder realizzato questo grande desiderio. Per ora, con Walter, mi sento di aver compiuto un primo, timido, passo all’interno di una vasta e stimolante nebulosa».
Lorenzo: «È una domanda davvero molto complessa, a cui non credo di poter dare una risposta certa. Considerando l’esperienza svolta in Lavanderia, grazie all’aiuto di Elisabetta Consonni, potrei forse dire che lo spazio pubblico non destrutturi tanto le forme, quanto piuttosto permetta di osservarle da una prospettiva altra, ritrovandole certamente, ma con qualità, spazi, tempi diversi da quelli della ricerca intima. Lo spazio pubblico allena e raffina lo sguardo, consente di osservare più declinazioni di un medesimo gesto, sensibilizza gli occhi, il corpo, la percezione. Non so quanto lo spazio pubblica crei “interfenze”: semplicemente amplia la visione e le possibilità di ricerca. Certo sposta il proprio immaginario, lo amplifica, costruisce un ventaglio maggiore di possibilità attorno a quanto si sta cercando (che sia un tema, un movimento, una relazione, un corpo, una sensazione, un’emozione), attivando così connessioni altre tra spazio, tempo, forma e qualità, tra ricerca e azione, tra spazio pubblico e spazio privato, tra Io e l’Altro. Ma non interferisce, semmai moltiplica».