29 Gen 2025

ICEBERG: residenza artistica di Salvo Lombardo

L’Iceberg è una massa che fluttua, un paradosso della fisica fatto di stratificazioni che ha il potere di emanare rifrazioni o far infrangere utopie: ha un potere di inversione di rotta e istigazione del cambiamento, in modo visionario o catastrofico.

In un momento di transizione, liquefazione di terraferma e fluttuazione identitaria, le istituzioni artistiche cercano nuove forme cangianti che possano far sgorgare nuovi immaginari e accompagnare nuovi modi di crearli. Non ci resta che abbandonare la rigidità arroccata sulle forme di lavoro e pensiero consolidate in modo calcareo, in cerca di nuove soluzioni che adottano la lateralità delle pratiche artistiche e il pensiero immaginativo come solvente e amalgama per impostare nuovi organismi, con nuovi valori, competenze, modalità e strategie di sviluppo.

Il progetto Iceberg si configura come uno spazio di ricerca comune tra un artista e un’istituzione – in cui poter immaginare prototipi ed emersioni di una drammaturgia istituzionale.

relazione_

Scrivo questi pensieri mettendo in campo il mio sguardo in soggettiva. Uno sguardo che riflette essenzialmente la mia relazione con la Lavanderia a Vapore che negli anni si è modificata, tracciando nuove traiettorie e nuovi margini di reciprocità, che sono ancora in ricerca.

In particolare queste note sono il rilascio di una piccola essenza del mio dialogo con Chiara Organtini sin dal suo ingresso alla guida di questa istituzione e con tutto lo staff, che nel tempo (e in particolare nel corso del 2024) si è incentrato su

una possibile ridefinizione della relazione tra
artista e istituzione.

Abbiamo lavorato per ridare significato al mio inquadramento di artista associato della Lavanderia e al contempo rivedere le priorità, le aspettative, le possibilità della Lavanderia rispetto al mio percorso artistico.

In questa forma di relazione biunivoca la Lavanderia è uno spazio dove la dimensione della cura incontra, prepara e nutre il terreno delle pratiche. Un luogo in cui l’attitudine alla ricerca si manifesta come centrale e si delinea come una prassi utile, tra le altre cose, a liquidare i confini tra il deposito affettivo e l’emersione pubblica delle pratiche, dei concetti e dei gesti che animano il lavoro artistico.

Quello che segue è una piccola collezione di istantanee. Una costellazione di pensieri che testimoniano una relazione (e un lavoro) che si racconta nel suo svolgersi.

iceberg_

Ho avuto modo, negli ultimi anni, di lavorare ad un progetto di ricerca condiviso con una più ampia comunità artistica su larga scala europea, basato sul rapporto tra danza e drammaturgia e sull’intreccio tra micro drammaturgia e macro drammaturgia, definendo cioè la drammaturgia come pratica attiva capace di riferirsi sia ai processi strettamente creativi sia al contesto che li alimenta.

Cambiare l’assetto della mia relazione con la Lavanderia a Vapore mi ha dato modo di mettere in pratica le mie ricerche sulla drammaturgia della danza e, in generale, di articolare un pensiero condiviso sulla

prototipazione di una drammaturgia
istituzionale.

Ho individuato nella figura dell’Iceberg l’impalcatura concettuale utile a evocare questo discorso. Così Iceberg è diventato il progetto di abitazione prolungata che con la Lavanderia abbiamo sviluppato nel corso del 2024 per dare forma a pratiche di reciprocità tra artista e istituzione.

L’iceberg è una massa cangiante, solida e vulnerabile allo stesso tempo; compatta strutturalmente ma fluida. L’iceberg è anche il disvelamento di un inganno pregiudiziale: ovvero si presta a emersioni riconoscibili in quello sfoggio della sua parte emersa, delle sue vette misurabili; tuttavia, di solito, è più la sua natura “profonda” che ne caratterizza sostanzialmente la mole e la potenza; questa massa – al di là del visibile – è un intricato ordito relazionale, una concatenazione di forme del fare tra il visibile e l’invisibile, tra il micro (la vetta) e il macro (ciò che sostiene quella emersione).

In questa dinamica come agisce una drammaturgia?
Cosa “scrive”?

Per rispondere è utile distinguere tra pratiche di “costruzione drammaturgica” (per esempio di una performance) e la più ampia “funzione drammaturgica” che determina le coordinate entro cui una determinata “scrittura” si muove.

Penso infatti alla “funzione drammaturgica”, oggi, come ad un processo estremamente poroso e non concentrato solo sulle componenti linguistiche interne al lavoro (livello micro); questa funzione a cui mi riferisco, al contrario, parte da un livello di macro drammaturgia e ha una temporalità potenzialmente inesauribile che precede, nutre e accompagna tutte le fasi del lavoro.

L’esercizio di questa forma di drammaturgia è un esercizio inter-soggettivo che richiede una suddivisione delle funzioni drammaturgiche tra chi “scrive” il processo artistico e l’istituzione che lo “trascrive” .

Il sistema delle performing arts molto spesso continua ad identificare un lavoro artistico con il suo esito finale, con la punta dell’iceberg. Dunque secondo questo pattern lo spettacolo, inteso come unica manifestazione del visibile, tende, a comprimere, a nascondere tutte le relazioni e le spinte che hanno portato all’emersione di quella vetta.

Ritengo, al contrario, fondamentale tenere in vita l’intera massa dell’iceberg; percepire questa massa come una massa pulsante e inesauribile, come qualcosa di più articolato e che può essere ridotta alla semplice “propedeutica” di costruzione del lavoro. Questa massa è situata in una zona di confine e richiede l’invenzione di spazi “in between” che possano legittimarla come parte centrale del lavoro.

Se dunque il livello micro-drammaturgico è circostanziale all’opera, cioè legato ai codici impliciti della scena, al suo linguaggio e dunque ai suoi livelli di scrittura, la funzione macro-drammaturgica invece riguarda il contesto, o meglio i contesti, intesi come sistemi di riferimento ambientali entro cui ha origine quell’opera (comprese le dinamiche sistemiche). Il contesto quindi non è la cornice di un evento, ma può coincidere con l’evento in sé e la sua trama di relazioni può indurre a invenzioni linguistiche che la contengano e la qualifichino come “cosa”. Per questo, in senso ideale, il livello micro e quello macro di una ricerca artistica non sono mai scindibili; l’uno informa l’altro. La mia funzione, all’interno del progetto Iceberg, è quella di forzare, con la mia attività, i confini tra produttivo e improduttivo, tra le pratiche e l’elaborazione teorica, tra la trasmissione e la composizione e soprattutto di auto disciplinare il privilegio della ricerca (privilegio solo se inquadrato dal punto di vista di un sistema che ne disconosce in parte la funzione, in particolar modo nell’ambito delle arti performative).

Autodisciplinare significa anche non delegare del tutto, non isolarsi nella stiva ma affiancare il pilota, immaginarsi co-pilota per alcuni tratti del percorso. La postura di chi fa ricerca è peculiare in ogni ambito: forme di autogoverno e interazione costante, forme di radicale indipendenza che dialogano con orientamenti o addirittura con forme di implicita o “esplicita committenza”.

Per mettere in pratica un modello come questo, pertanto, è necessario però che una Istituzione come un centro di residenza per la danza (ma vale per tutti i centri che accompagnano la creazione artistica contemporanea) renda porose le sue politiche culturali e si alleni a pensare l’ambito delle relazioni tra soggetti come parte preponderante della creazione e non come una parte subordinata allo svettare dello spettacolo.

Una istituzione che voglia farsi carico di questa necessità può impegnarsi legittimando forme di “comprensione additiva” delle cose, come dicevo prima, nonché formati che includano anche ciò che non è direttamente riconoscibile come un “evento performativo” oltre la cornice “rappresentazionale”

e impiantando nuove pratiche curatoriali che
mettano in relazione e integrino: bisogni,
necessità, punti di vista, aspettative tanto
dell’artista quanto dell’istituzione, assumendo il
rischio di transitare in zone intermedie, tra il
visibile e l’invisibile, tra micro e macro e
riqualificando di volta in volta la propria
posizione e la propria funzione.

Forse è diventato necessario rivendicare forme radicali di viscosità e pensarsi come organismi complessi e irriducibili.

come-cose?_

Negli ultimi anni abbiamo deciso di non soffermarci solo sull’orizzonte tematico delle nostre rispettive traiettorie di ricerca – la mia come artista e quella della lavanderia come centro di residenza – ma di mettere a fuoco anche i modi del nostro operare, nella consapevolezza che i modi non sono una veste né un semplice assetto comportamentale, bensì la sostanza che determina gli stessi temi. Abbiamo, in sostanza, cercato un bilanciamento tra le “cose” che si vogliono realizzare e un “come” farle. Un rapporto COME-COSE, mi piacerebbe dire, che permea le abitudini di entrambi gli ambiti: quello del fare segnato dalla “produttività” e quello di un fare auto riflessivo che rivendica il suo stare in ricerca.

Rinominare le COSE significa riformulare le domande che normalmente si presume abitino i processi artistici; quelle domande dalle quali scaturiscono temi di indagine e da cui a cascata possiamo desumere delle poetiche. Questionare il COME, significa invece non trascurare il contesto entro cui quelle domande sorgono. Lasciarsi informare dal macroscopico.

Immaginare che l’ambiente non avvolge solo le
cose ma le orienta.

Chiedersi COME ci si situa (o ci posiziona) nell’atto di guardare le COSE. La creazione artistica presuppone una occupazione transitoria di spazio e tempo.

Qual è la mia postura in questa occupazione?

Quali sono le domande che a mia volta, come artista, pongo all’istituzione che mi accompagna?

Quali sono i margini di co-invenzione che posso allenare?

Come posso avanzare risposte che tengano conto delle mie prospettive e che al contempo considerino il campo di enunciazione che le accoglie?

Come un artista e un’istituzione possono mettere in relazione le tensioni e le spinte specifiche che caratterizzano la loro operatività, orientando quelle tensione verso una dimensione trasformativa e pubblica?

Cosa ridefiniamo insieme la caratura dello spazio e del tempo occupati dai processi artistici?

Occupare COME occuparsi. Occuparsi COME curare COSE. COME-COSE: un atto di cura, essenza della ricerca.

ipotecare la produzione_

La lavanderia a Vapore è un centro di residenza che interpreta la sua funzione istituzionale situandosi come un luogo in cui mantenere in vita la ricerca, valorizzandola come anticamera del fare ma al contempo – e questa è la propensione che richiede reciprocità anche come un fare che si basta.

Un centro di residenza di questo tipo è uno spazio che dà espressione a manifestazioni “visibili” del lavoro artistico (residenze creative e produttive, attività di programmazione, progetti di rete e ogni forma di esternazione misurabile e quantificabile) e che al contempo coltiva il desiderio di generare processi che spostano l’attenzione sui soggetti più che sugli “oggetti” del fare (reinventando nuovi approcci per la trasmissione dei saperi, pratiche di autocoscienza, ripensamenti metodologici, sperimentazione didattica e azioni che negoziano la propria “infallibilità” a partire da un impianto comunitario, da una tessitura relazionale e dalle sue variabili e soprattutto accudendo la fluidità di pratiche e discorsi che necessariamente si impongono – oggi – come in transito e in transizione, affamati di amichevoli sostegni e alleanze).

Tutte azioni – quelle che caratterizzano questo tipo di processi – che possano – volendo – non essere preludio di alcuna opera, impermanenti nella tessitura di ciò che tende verso un “invisibile”, la cui efficacia non è misurabile nell’immediatezza “performativa” del qui e ora, ma solo in prospettiva. Questo spazio che sto evocando, rispetto alle logiche produttive usuali e diffuse, può operare dunque nella dimensione del “prima” e può qualificarsi anche nella categoria del “in-sé”.

Un’istituzione che si occupa di ricerca, in tal senso, può dirigere le sue funzioni muovendosi con radicale capacità immaginativa tra il campo della semina e quello della coltura. Facendosi custode di una fiducia (una fiducia generativa e gravida di futuro) che caratterizza ogni stagionalità e ogni ciclo produttivo. Facilitare la fioritura e accudire una produttività intempestiva. Una produttività “ipotecabile”.

comprensione additiva_

Se avvicino a me l’oggetto o se lo rigiro fra le dita per “vederlo meglio” lo faccio perché per me ogni atteggiamento del mio corpo è immediatamente potenzialità di un certo spettacolo, perché ogni spettacolo è per me ciò che esso è in una certa situazione cinestetica, perché, in altri termini, il mio corpo è perennemente posto in stazione di fronte alle cose per percepirle.
Maurice Merleau-Ponty

Si può rendere obliqua la produttività solo incoraggiando un andamento non necessariamente lineare, accogliendo pratiche complementari, allentando la presa sulla classificazione e sulla suddivisione disciplinare degli ambiti e dei ruoli.

Questo è possibile solo interpretando la propria pertinenza e il proprio inquadramento come funzione generativa e non circoscrivendo confini e inquadramenti disciplinari rigidi. Anche questa è una pratica che può essere enunciata dal punto di vista di un ampliamento dell’assetto qualitativo del fare, dandosi la possibilità di sbullonare, quando necessario, tassonomie e parametri solamente quantitativi. Dal punto di vista dell’istituzione si tratta, probabilmente, di aggiornare o riformulare la propria capacità interpretativa (rispetto all’esistente) e di operare scelte (lungimiranti, visionarie, avventate e predittive – quasi magiche) e rispetto alle pratiche artistiche dell’esistente). Dal punto di vista dell’artista, credo, si tratti di allargare lo sguardo, di estroflettersi, muoversi dinamicamente dalla conca del solipsismo verso una “comprensione additiva” di modelli e di “sistemi”.

Per me, per il mio percorso, abitare uno spazio come questo significa, nella pratica, dare dimora a tutte le forme generate dalla mia ricerca, permettendo loro di convivere e coesistere alimentandosi a vicenda, in un regime di reciprocità non gerarchica. Si tratta di aumentare i varchi di accesso alla percezione e quelli legati all’esperienza delle cose. Nell’ultimo anno in particolare, nel mio lavoro per e con la Lavanderia a vapore, ho tentato di non fare convergere in un unico punto le mie pratiche. Qui ho trovato la complicità e il tipo di sostegno necessario per un ampliamento dei nodi discorsivi, per una ramificazione della mia prassi artistica, una espansione dei miei “canali produttivi” e dei miei “apparati mediali”, la cui produttività diverge a partire da un nucleo, come un organismo tentacolare.

abitare_

Per dare espressione a questo tipo di pratica con Chiara Organtini abbiamo deciso di manomettere, nel corso dell’annualità 2024, la definizione di artista associato così come l’avevamo intesa in passato.

Abbiamo immaginato che non fosse più sufficiente pensare le mie residenze in Lavanderia solo come il luogo d’elezione in cui impiantare i miei processi strettamente artistici (ovvero quei processi più legati alla realizzazione e dunque al versante produttivo del mio percorso). Abbiamo tentato di ridisegnare lo spazio e il tempo della mia abitazione della Lavanderia come uno spazio-tempo prolungato e di reindirizzare le risorse economiche a disposizione per impiantare un tempo per la ricerca, una ricerca potenzialmente stanziale.

Non più lo spazio e il tempo circoscritto del formato residenza ma una disseminazione di attraversamenti posti in continuità.

Nello specifico la Lavanderia ha sostenuto una serie di lunghe residenze ricorrenti nel corso del 2024, durante le quali potessi muovermi fluidamente tra momenti di ricerca intorno ai miei attuali e futuri progetti coreografici, momenti di osservazione del lavoro di altrə artistə ospitatə in residenza, partecipazione a momenti di pianificazione delle attività dello staff della Lavanderia, attraversamento delle attività di programmazione e in particolare dei vari formati di festival articolati nel corso dell’anno e momenti di rielaborazione di quanto osservato e di restituzione di pensieri e chiavi interpretative sul lavoro svolto. Abbiamo condiviso una domanda che ci guidasse in questa sperimentazione:

come un artista e uno spazio possono costruire una rete di intrecci visibili e invisibili, attraversando reciprocamente discorsi, parole, pratiche che abitano la Lavanderia per incidere sulla visione e sulle traiettorie progettuali future di un’istituzione possibile ?

Il testo di Salvo Lombardo
con i collage di Kadri Sirel

e
Appunti per una comunità che Danza

LAVANDERIA A VAPORE