“Scrivere lo spazio” #1 | Buon compleanno, Lavanderia!

“Scrivere lo spazio” #1 | Buon compleanno, Lavanderia!

Nel corso delle ultime settimane, la Lavanderia a Vapore è stata “teatro” di due importanti avvenimenti: dapprima – il 12 novembre (tra astronauti, amache e dance floor) – si è scatenata nei festeggiamenti dei 7 anni di gestione Piemonte dal Vivo, che cura appunto dal 2015 – in qualità di capofila – le attività del Centro con un Raggruppamento Temporaneo di Organismi, costituito attualmente anche da Coorpi, Didee, Mosaico Danza e Zerogrammi. Qualche giorno più tardi, tra il 18 e il 19, l’antica ala del Manicomio di Collegno ha ospitato un eccentrico e trasognato Research Camping, co-progettato insieme a Workspace Ricerca X, aperto all’immaginazione collettiva di artistə e curiosə. Entrambe le esperienze, lavorando sulla ridefinizione dei luoghi e delle liturgie dello stare (con un ritmo più accelerato nel party, più lento invece nel “campeggio stellare”), si sono configurate come forme virtuose di “scrittura dello spazio”, pensate per invadere il palcoscenico e stimolare drammaturgie di comunità. Ma cominciamo dalle 7 candeline…

A partire dalle ore 15 e fino a notte inoltrata, la Lavanderia a Vapore e la circostante cornice del Parco della Certosa sono state letteralmente invase, solcate, o per meglio dire “scritte”, “coreografate” – tra formati immersivi e spazi diffusi -, da una ricca pletora di corpi danzanti. Per un quadro completo sul long-durational-event, clicca qui.

In generale, al centro di questa giornata di celebrazioni collettive, ça va sans dire, l’immancabile nozione di cura, bussola delle attività del Centro di Residenza per la stagione in corso. Dalla cura nella micro-politica del corpo si è pian piano passati alla cura nella macro-politica delle relazioni interumane, in una festa che ha preso progressivamente forma fino all’epilogale eccitazione dionisiaca. Se nel pomeriggio l’amaca di Paola Colonna ha reso possibile una sorta di lieve “ablazione” dell’io, la tenda di Elisabetta Consonni e Fatima Ferro ha stimolato invece al proprio interno un’indagine sui saperi del corpo provenienti dalla tradizione non-occidentale. Il tutto – grazie alla collaborazione con Cooperativa Atypica – negli spazi dell’ex Hammam di Villa 5, luogo tradizionalmente deputato alla cura di sé (e sede peraltro di una lecture-performance di Giorgia Ohanesian Nardin). Collateralmente, si è svolto – tra la Stireria e il Parco – un laboratorio sulla lentezza per gruppo ristretto di partecipanti, all’interno del quale Consonni e i suoi collaboratori sono riusciti a trasmettere una certa qualità di slow-motion, di rallentamento fisico e creativo da paradosso zenoniano, sfociato poi in un allunaggio itinerante per le strade della città. Antipasto degli eccessi serali è stato infine il DISCOBOX di Fabritia D’Intino e Federico Scettri, accolto nel tepidarium di Villa 5, un interessante esperimento immersivo a cavallo tra l’installazione interattiva e il dj-set in cuffia.

A nutrire l’intero progetto, un fondamentale interrogativo: in che modo, da una ri-centratura del proprio corpo, è possibile ri-concepire la relazione con l’altro? Altrimenti detto: dalla cura del sé, che diventa cura del corpo, come si approda alla cura dello spazio e di chi lo abita? È in effetti la cura a consentire l’edificazione di mondi possibili, l’emersione di riflessioni sul tema del piacere fisico, la generazione di pause di rallentamento del tempo. Di quel prezioso tempo “non produttivo” della festa avvinto a filo doppio all’idea – provocatoria e paradossale – di wildiana memoria di “inutilità dell’arte”.

Acme dei “trattenimenti”, INTO THE OPEN di Voetvolk, collettivo di danza e performance con base tra Anversa e le Fiandre. “Un folle concerto di danza – così lo ha definito Ewoud Ceulemans sulle colonne del «De Morge» – in cui tre musicisti punk e quattro performer dalle gambe snodate danno vita a una festa selvaggia”. I sette protagonisti in scena incarnano il groove e condividono con il pubblico in sala l’energia della musica. Spronandosi a vicenda con il krautrock ruffiano o con il tema ripetitivo dei Can incrociato all’alta tensione dei Chemical Brothers, la formazione è riuscita a invitare tutti i partecipanti a “un salto collettivo […] nel limbo”.

concept Lisbeth Gruwez e Maarten Van Cauwenberghe
coreografia Lisbeth Gruwez e performer
performance Francesca Chiodi Latini, Celine Werkhoven, Artemis Stavridi, Misha Demoustier, Maarten Van Cauwenberghe, Frederik Heuvinck ed Elko Blijweert
musica Dendermonde
drammaturgia Bart Meuleman
repetitor Francesca Chiodi Latini
light design Yann Windey
costumi Jean-Paul Lespagnard
in collaborazione con Muriel Kunkel e Marcelo Chaviro
suono Bart Van Immerseel
tecnico Kevin Deckers
produzione Voetvolk vzw
coproduzione KVS – Royal Flemish Theatre, AB – Ancienne Belgique, Theater Im Pumpenhaus, Dansens Hus Oslo & Vooruit Ghent

INTO THE OPEN – da un lato chiusura del compleanno di Lavanderia – ha funto tuttavia al tempo stesso anche da lancio della rassegna diffusa di danza contemporanea We Speak Dance, ideata da Piemonte dal Vivo sul territorio regionale. A tal proposito è nata – sulla scia di How do you spell dance? – una redazione “errante” di giovani penne (che seguirà alcune tappe del progetto) provenienti dal DAMS/Università di Torino e dalla Scuola Holden, cui viene affidato il compito di tradurre in parole e immagini la visione coreografica, sperimentando svariati formati e output. Ecco qui di seguito i loro contributi per questa prima data:

A mo’ di entrée, in 600 battute
di Federica Siani

Quando i confini vengono meno ed il limitare di territori vari (e vasti) è trascurato. Quando la certezza di cosa sia (o non sia) la danza vacilla. Quando il suono di due chitarre e di una batteria prende ulteriore vita attraverso chi si esibisce solamente con il proprio corpo, ma che in realtà anche canta e anche suona. Una performance totalizzante, un concerto performante che si fa danza ed una danza che si fa concerto. Una prova che si colloca al confine tra una disciplina e l’altra, rendendo necessaria una sospensione dei generi, e che prevede l’amalgamarsi di diversi campi artistici. Anche questo è stato Into the Open, l’apertura della rassegna We Speak Dance del 12 novembre 2022 presso la Lavanderia a Vapore.


Corpi di nebbia
di Martina Vianovi

La prima cosa è la nebbia.

Quella fuori (inizia a far freddo, brina sui prati qui attorno) e quella dentro, sinuoso regalo delle macchine del fumo. Le due brume ci lusingano con false aspettative: che ad attenderci sia uno spettacolo morbido e sospeso, in qualche modo velato.

Invece a questo show piace mettere le cose in chiaro. Lo fa subito, sputando fuori dal retropalco i performer uno ad uno, ciascuno a prendersi il proprio tempo sotto la luce geometrica dei neon colorati. Ci vengono incontro con un’aria divertita e un sorriso da flirt, ci guardano, si guardano, e questo palleggio suggerisce un gioco sottile — Non sapete cosa vi aspetta. Noi sì.

Non è solo danza, questa. È concerto e danza insieme, senza dubbio e senza confini, la batteria che si prende un terzo di palco e i chitarristi che si annodano ai danzatori in una ragnatela di movimenti elastici e dita su corde elettriche e bacchette indiavolate su tom e rullanti. Alla coreografia piace lasciare spazio al dubbio, invece: che non sia gabbia ma solo suggerimento, una raccomandazione da leggere negli accenti dei  corpi — una spalla improvvisa, un ginocchio di lato, la mossa repentina di un fianco — ma sempre con un margine di libertà da riempire a piacimento. E che a piacimento viene riempito.

Hanno l’aria di non toccarsi mai, queste creature da palco, anche quando si toccano. Restano a distanza anche vicinissimi, quasi un campo magnetico li proteggesse dal respiro altrui, ballano un gioco interiore con se stessi più che con gli altri, come quando le feste iniziano e l’imbarazzo invischia i movimenti. Ma lo spettacolo dà un colpo di coda e il loro confinarsi si sovverte in un rallenty: alcuni si spogliano di qualche indumento, eppure non sono solo pezzi di stoffa a rimanere indietro, è un vero e proprio liberarsi. Un rivelarsi. Da lì, la dinamica è ribaltata: adesso sì che si toccano, anche da lontano. E lo sappiamo, è nel toccare che qualsiasi festa inizia davvero.

È difficile restarsene a chiappe incollate alla sedia con questa musica, questo rock che sbatte sulle pareti e vibra sulla nostra pelle e scende giù nelle orecchie, eppure a farci desiderare il movimento non è il palloncino gigante che hanno liberato in platea perché giocasse con le nostre braccia e non è neanche quel flirt di sguardi, è che questi hanno l’aria di divertirsi sul serio. Se il pubblico lasciasse la sala, se sciamasse via dagli spalti e fuori dalla Lavanderia a vapore, se togliesse la brina dal tergicristalli e volgesse verso casa, si spogliasse del cappotto, entrasse nel pigiama, rispondesse al miagolio del gatto o allo scodinzolio del cane con uno sbadiglio e si mettesse a dormire per prepararsi all’indomani, nel frattempo questi matti non farebbero una piega, sarebbero ancora qua a suonare, a ballare, a farsi attraversare il corpo di energia e a spararla fuori, ad agganciare le note alla colonna vertebrale per trasformare le terminazioni nervose in frastuono di movimenti.

Forse stava proprio lì, il cuore di tutta la faccenda — a un certo punto lo capiamo. A fine spettacolo, ai bis e ai tris invocati a gran voce si impasta un invito a raggiungere lo spazio scenico. Di più: a invaderlo. Ma è l’invasione di un luogo già nostro, anche se ancora non lo sapevamo. È la festa ultima e definitiva, perché dentro quella musica forsennata entriamo tutti ora, la settantenne della seconda fila e l’adolescente venuto giù dall’ultima, corrono fra i cavi e gli strumenti a mescolarsi coi performer, coi musicisti, con la benedizione del sudore e con il sentire di quei corpi vivi finalmente, inchiodati, o stanchi o vecchi o ridicolmente giovani, ipotetici, mancanti, dimenticati, ma liberi adesso, e senza censure e senza lacci a trattenerli.

Corriamo tutti in centro palco, e questo era il dove a cui approdare: Into the open. A cielo aperto, in bella vista, allo scoperto.

La prima cosa era la nebbia.

Ma dentro ci abbiamo visto benissimo: la festa esplosa dei corpi da abitare. I nostri corpi, tutti i corpi.


INTO THE OPEN. Vale a dire una danza folle e dirompente, dai ritmi Punk
di Michele Pecorino

Tra la nebbia autunnale, che si poggia live e silenziosa sul ciottolato del parco della Certosa , si distinguono chiaramente gli elementi strutturali della Lavanderia a Vapore. Le sue ampie finestre lasciano filtrare all’esterno una luce cangiante, diversa da quella a cui si è usualmente abituati. Gli ultimi passi sono calamitati dal chiacchiericcio quasi trepidante, proveniente dal Foyer. Una volta dentro l’atmosfera che si respira è quella di festa. In questo sabato 12 novembre, il clima caldo e coinvolgente, creatosi sin dal primo giorno della fondazione della Lavanderia a Vapore, è più che necessario per festeggiare il suo genetliaco. Il pomeriggio, già ricco di eventi, non è potuto che tradursi in una serata fuori dalle righe, con lo Spettacolo Into The Open. L’opera è frutto della compagnia di danza e performance Voetvolk. Gruppo che nasce dall’idea di due danzatori quali Lisbeth Gruwez & Maarten Van Cauwenberghe.

L’avvenimento spettacolare, oltre ad inserirsi all’interno della cornice degli eventi per il settimo anniversario dell’istituzione, ha inaugurato  la rassegna di danza contemporanea We Speak Dance. Questa rassegna diffusa sul territorio regionale è curata dalla fondazione Piemonte dal Vivo. Entrando in sala, lo spettatore, sin da subito, si è trovato davanti ad una scena alquanto insolita. Forse molto distante da quella che qualcuno si sarebbe immaginato pensando ad uno spettacolo di danza. Il classico biglietto, recante la fila e il numero assegnati, non avrebbero mai fatto supporre ad un interesse, da parte dei performer, per un coinvolgimento attivo. Su di una piattaforma mobile, grazie alle ruote di cui è dotata, è posizionata una batteria dalle dimensioni generose. Non appena tutti hanno già preso posto, a comparire dal fondo della scena è il batterista che, stappata una lattina di birra e messosi comodo, inizia ad incalzare con ritmi punk. Seguendo il groove, scandito dalla batteria, fanno il loro ingresso un bassista e un chitarrista. L’essere introdotti da questo groove, sempre più arricchito, sembra quasi rimandare alle dinamiche dei Leitmotiv wagneriani. Per ultimi fanno la loro comparsa, sempre dalle quinte, quattro danzatori dai movimenti fluidi. Sembrano incarnare, con i loro corpi snodabili, il ritmo folle della musica. La carica d’adrenalina nello spettatore viene fatta crescere sempre più. L’azione in scena si crea in relazione con quella che è la presenza dello spettatore. Il pubblico occupa, legittimamente, quella dimensione aggressiva che potrebbe fare pensare ad un concerto Rock o Punk. Gli stilemi, oramai classici che sono rientrati a tutto diritto nel linguaggio riconosciuto di questa musica, si interfacciano con nuovi orizzonti comunicativi, con nuovi codici espressivi. La danza frenetica segue un climax che si specchia nello spettatore attraverso la sua esperienza personale, ben radicata. Non si fa fatica a ricondurre quello che si sta ascoltando ad altre esperienze musicali che hanno segnato un epoca culturale. Il terreno fertile su cui si fa strada il groove di Into The Open,  è lo stesso spazio sonoro prolifero ed entusiasmante generato dall’ascolto dei Ramones dei Nirvana, di Jimi Hendrix.

Il ritmo, nella sua crescita costante, è soprattutto reso attraverso l’attenta partitura ritmica delle luci. Si è così all’interno di un luogo dove la particolare compenetrazione tra panorama sonoro e quello visivo, crea uno spazio. Una relazione. Per la costituzione di questo spazio, naturalmente, un’importanza rilevante l’assumono i corpi. Corpi attraversati da un movimento pre-esistente e che è quasi visibile negli attimi precedenti all’inizio dell’evento.  La presenza dei corpi rivendica la necessità di andare oltre. L’interagire di codici e linguaggi apparentemente diversi, permette di affrontare un discorso di senso che riguarda, da vicino, il tema della presenza.Un discorso cosciente dei costrutti del corpo e che ci lavora, per aprire una nuova riflessione.

I movimenti accattivanti e provocanti risuonano nel pubblico, come una carica dirompente. I performer alternano momenti diversi. La partitura del movimento si struttura attraverso relazioni differenti tra luce e danza. Un primario momento di rottura della barriera tra il pubblico e la scena, è quando la piattaforma sulla quale è posta la batteria, viene tirata in avanti. Altro momento, altamente coinvolgente, è il lancio sul pubblico di un enorme palloncino di gomma. Gli spettatori iniziano a farlo rimbalzare senza sosta. Il movimento lento e leggero del pallone, che a tratti ricorda la leggerezza della nebbia che nel frattempo scende più fitta fuori, entra in stretto contrasto con la musica dai tratti spigolosi e taglienti. Lo spettatore cessa di essere assoggettato alla sua pars costruens interiore e si getta a capofitto nella relazione con altri corpi. Questo avviene gradualmente: prima sospingendo il palloncino e dopo gettandosi direttamente sullo spazio scenico. La scrittura scenica si fa dunque cangiante e travolgente, in una performance che conosce la strada da cui proviene e che non ha timore delle vie inesplorate che le si aprono d’avanti.


Allo scoperto
di Maria Rosaria Visone

Il palco come una mente appena sveglia: uno spazio quasi ordinato, sgombro ma non troppo, pronto per essere attraversato e vissuto, mentre una leggera foschia e uno strano silenzio lo invadono.

In questa calma, dal fondo della scena, sopraggiunge una figura. È come un segnale: il primo pensiero della giornata. Un pensiero leggero, disinvolto: tranquillamente, raggiunge la sua postazione, stappa una lattina di birra, sorseggia ed è subito pronto a partire. Si tratta di Frederik Heuvinck, batterista e percussionista della compagnia belga Voetvolk, colui che scandirà il tempo e il ritmo della performance e del gruppo. Ma Frederik non è solo: ad accompagnarlo e a creare con lui una vera e propria “macchina ritmica”, i due chitarristi Elko Blijweert e Maarten Van Cauwenberghe. Poi, come nella mente ad un pensiero se ne accumulano tanti altri, anche sul palco, accanto a queste prime tre figure, se ne avvicendano altre più “sfocate”: sono le tre danzatrici Artemis Stavridi, Celine Werkhoven e Francesca Chiodi Latini, insieme con il danzatore Misha Demoustier.

Into the open si apre così al pubblico della Lavanderia a Vapore di Collegno, con estrema naturalezza e spontaneità, nel giorno del suo settimo compleanno. Una pacatezza che poi si trasforma in un vortice inarrestabile, che non dà adito a pensieri negativi: può solo catturare e attraversare vigorosamente e in profondità gli spettatori e le spettatrici.

I/Le performer si palesano alternandosi in sfilate, invadendo progressivamente lo spazio, quasi sfidando la realtà che si apre di fronte a loro. Sfacciatə, sembrano inizialmente voler nascondere le loro personalità, le stesse che il pubblico, durante la performance, non potrà fare altro che riconoscere e adorare. Perché ogni performer rappresenta il mondo tutto, nelle sue peculiarità, nei suoi innumerevoli colori e nelle sue molteplici forme e sfaccettature. Sono come noi tuttə vorremmo essere: liberə dai preconcetti, dalla paura di essere giudicatə o di mostrarci per ciò che siamo realmente. E, come balzati fuori dalle tenebre dopo tanto tempo, basta loro un momento, un attimo, per rivelare tutta la loro essenza e potenza quasi sovrumana. Consapevoli di avere gli occhi del mondo addosso, finalmente si mettono a nudo, allo scoperto, senza filtri. Ostentano, mettono a soqquadro, lottano, producono sinergie ma anche illusioni.

Corpi, voci e musica compongono insieme sulla scena un ineluttabile compromesso legato alla vita: non può esistere forza senza momenti di debolezza e non può esserci fervore se prima non si attraversa la tranquillità. In questo alternarsi di emozioni, la musica rock incontra necessariamente la danza: una danza non codificabile o classificabile, una danza che esprime semplicemente un bisogno fisiologico. È il bisogno di muoversi, di dare respiro al proprio corpo in più direzioni, individualmente e/o con altre persone, in connessione con i/le performer.

Il palco diventa così anche il riflesso dei nostri impulsi più animali, quelli che quotidianamente mettiamo a tacere per restare saldi e stabili in superficie. E da luogo ordinato e sgombro, la nostra mente non può che popolarsi di nuovi input e stimoli: pubblico e performer si incontrano per partecipare insieme ad una grande festa, per creare un disordine “scomodo” alle vite ordinarie. È come un rito euripideo, dalle forme e dalle melodie tutte dionisiache. Una volta concluso, di esso restano dubbi, dilemmi e interrogativi, ma non hanno un sapore amaro: tutt’altro, sono accolti e avvolti da un’energia autentica, inaspettata, che permea e sopravvive irrimediabilmente nell’animo e nella mente di chi l’ha vissuta.


E tu, lo ricordi quand’è stata l’ultima volta?
di Giorgia Borgioli

Quand’è stata l’ultima volta che hai mosso il tuo corpo senza pensare a niente?

Quand’è stata l’ultima volta che hai agitato la testa così forte da non renderti più conto di ciò che era intorno a te?

Quand’è stata l’ultima volta che le gambe hanno molleggiato sul pavimento senza controllo?

Loro, quei quattro ragazzi sul palco, lo sanno come fartelo ricordare.

Lo sanno così bene che compaiono sul palco sfacciati, disinvolti come se davanti a loro non ci fosse una platea di persone, ma solo un gran desiderio di perdersi nella musica senza pensare.

Arrivano, e uno dopo l’altro si aggiungono alla musica. Iniziano a muoversi tra i piatti della batteria, tra l’asta del microfono disposti sulla scena; i muscoli si lasciano intravedere tra shorts di jeans, canottiere di cotone e strass.

Fidatevi di noi, qui c’è solo da divertirsi, sembrano dire.

E allora tu, tra il pubblico, ti fidi davvero: la tua testa inizia a muoversi insieme alla batteria, insieme a quei quattro folli che saltano di qua e di là sul palco, scattano e poi si rilassano a ritmo di musica.

In un attimo la platea è inglobata nel ritmo, il teatro è trasformato in una discoteca anni ’90.

La libertà è un teatro popolato di luci al neon e musica a palla.

Un’enorme pallone rosa volteggia tra il palco e la platea.

Quando loro sentono che l’energia si sta esaurendo, ecco che la palla in lattice viene lanciata verso il pubblico che così si ricarica subito di energia e colore.

La musica dance aumenta di volume e forza fino a un limite che sembra essere fatto per essere superato.

E allora superiamolo questo limite, dicono loro.

Tutto è festa. Tutto è energia. Tutto, qui dentro, è materia viva che pulsa.

Si respira libertà. Qui la felicità è un fianco che sbatte contro l’altro e endorfine che si disperdono per tutto il teatro.


DanzArTe: un seminario di presentazione alla Lavanderia a Vapore

DanzArTe: un seminario di presentazione alla Lavanderia a Vapore


L’8 novembre scorso, presso la Lavanderia a Vapore di Collegno, una giornata dedicata alla presentazione del sistema DanzArTe, risultato di un importante progetto trans-disciplinare, che utilizza l’arte e il movimento come attività fisica ed esercizio cognitivo di memory training rivolto ad anziani a rischio fragilità per ritrovare, danzando, sé stessi. La emotional wellbeing technology di DanzArTe trasforma il “contatto fisico” con l’opera d’arte in una nuova pratica amatoriale collettiva che, esercitando in maniera emozionale movimento e memoria, crea una coinvolgente esperienza di comunità. Sono intervenute: Chiara Organtini, Carlotta Pedrazzoli, Eugenia Coscarella, Francesca Cola e Debora Giordi.

Fa ridere? Sguardi (e sconfinamenti) su Boris Charmatz

Fa ridere? Sguardi (e sconfinamenti) su Boris Charmatz

L’1 e il 2 novembre, Boris Charmatz – acclamato danzatore e coreografo francese (nonché neo-direttore del Tanztheater Wuppertal Pina Bausch) – ha portato in scena a CanGo – Cantieri Goldonetta di Firenze il solo Somnole, in occasione della nuova edizione del progetto “La Democrazia del corpo” di Virgilio Sieni. Qui di seguito, la visione di Benedetta Colasanti, dottoranda in Storia dello Spettacolo e critica di danza, coinvolta a giugno scorso nel campus di How Do You Spell Dance?, progetto ideato dalla Lavanderia a Vapore di Collegno – in collaborazione con Springback Academy/Aerowaves e Scuola Holden – per sviluppare competenze nell’ambito del dance writing.


Fa ridere?

Boris Charmatz fa parte di una generazione di artisti che, con caratteristiche più o meno peculiari a seconda dei contesti geografici e nazionali, domina la scena della danza contemporanea europea perpetuando una trentina d’anni di sperimentazione, provocazione, contaminazione. Somnole è la sua nuova fatica, già presentata alla Triennale di Milano e recentemente andata in scena a Firenze, a Cango, nell’ambito del cartellone autunnale del festival La democrazia del corpo (ottobre-dicembre 2022).

ph. Marc Domage

Quello del Cango è un pubblico avvezzo a sperimentalismi ed eccentricità: divertito dalle prodezze del danzatore, ride e applaude entusiasta. Da che cosa scaturisce la risata? Dal fischiettio emesso dal performer? Dalle posture scomposte? Dalla frenesia o dall’eccessiva lentezza del movimento? Il comico è in realtà tragicomico, per non dire tragico. Se non piace, emoziona: disgusto, tristezza (o gioia), paura (o ancora gioia) di essere coinvolti nella messinscena; anche se il pubblico della danza contemporanea non dovrebbe mai aspettarsi di rimanere intoccabile e protetto dalla penombra e dal tepore dalle poltrone rosse. In Somnole gli spettatori sono – come spesso accade nello spettacolo della contemporaneità – presenti, visibili, partecipi, corpo vivo della rappresentazione.

La caratteristica principale è forse quella di sconfinare: dai confini disciplinari, da quelli della scena, addirittura da quelli di certe tacite norme sociali. Niente di nuovo: lo hanno già fatto i suoi predecessori, prima fra tutti Pina Bausch, del cui Tanztheater Wuppertal Charmatz è attualmente neodirettore. Ma tutto questo già visto è ancora in larga parte da concepire, da accettare e da normalizzare. Somnole trae ispirazione dallo status di dormiveglia e dal sonno. L’esito comico dello spettacolo è in realtà frutto del disagio e dell’inadeguatezza, originati della solitudine, dal silenzio, dall’assenza di persone e di azioni, e concretizzati nel risveglio, nel ritorno dei rumori, in nuove occasioni di socialità. Somnole nasce anche dall’irrazionalità e da un’apparente non progettualità che può contare su un training mentale e fisico continuo e a tutto tondo. La padronanza di Charmatz di ogni singolo muscolo del suo corpo e la consapevolezza delle proprie potenzialità sono evidenti. Disparate anche le conoscenze: della danza, dello yoga, del respiro, dell’antropologia…

ph. Marc Domage

Qual è la drammaturgia di Somnole? Un uomo prende possesso di luogo vuoto; indossa un gonnellino con motivi riconducibili allo Stato francese e prende confidenza prima col proprio corpo, poi con lo spazio circostante, col rumore, infine col pubblico. Un suono inizialmente quasi impercettibile si rivela per essere un fischiettio, ora naturale, rimandando al cinguettio degli uccelli nelle mattine di primavera, ora sempre più antropomorfo, fino a farsi vero e proprio concerto sinfonico di motivetti ben noti. Tra stasi e concitazione, il danzatore sfiora la devastazione fisica, in modo diverso, ma con un risultato simile a Folk-s di Alessandro Sciarroni o Esercizi per un manifesto poetico del Collettivo MINE. Ma il culmine emotivo dello spettacolo è forse quello in cui la luce illumina la cavea e Charmatz porge la mano al pubblico intimidito e balla un lento con uno degli spettatori.

Il neodirettore del Tanztheater è facilmente collocabile nel contesto di una generazione francese ed Europea che abbraccia artisti del calibro di Jérôme Bel, Anne Teresa De Keersmaeker, Virgilio Sieni, Enzo Cosimi e molti altri che hanno scritto la nuova storia della danza e che continuano a scriverla. Una storia ricca di sfaccettature e particolarismi, delle cui citazioni continue si nutre una vasta schiera di artisti-danzatori emergenti. La danza contemporanea e, in questo caso, la danza di Boris Charmatz, se non può prescindere né da una formazione rigorosa né da esperienze eclettiche nell’ambito di varie declinazioni artistiche, esce decisamente da certi ranghi accademici per riversarsi nella riscoperta dell’ovvio (ma che ovvio più non è) e del quasi dimenticato essenziale.

Se queste ombre vi hanno offeso, pensate (e cada ogni malinteso),
Di aver soltanto sonnecchiato,
Mentre queste visioni vi hanno allietato.
E questo tema ozioso e futile
Non più di un sogno vi sarà utile.
Gentili amici, non rimproverate;
Miglioreremo se perdonate…

(William Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate)

Benedetta Colasanti


SOMNOLE
coreografia e interpretazione Boris Charmatz
assistente coreografa Magali Caillet Gajan
luci Yves Godin
collaboratrice ai costumi Marion Regnier
preparazione voce Dalila Khatir
con l’aiuto di Bertrand Causse e Médéric Collignon
materiali sonori ispirati tra gli altri a J.S. Bach, A. Vivaldi, B. Eilish, J. Kosma, E. Morricone, G.F. Haendel
direttore di scena Fabrice Le Fur
tecnico luci Germain Fourvel
vicedirettore Hélène Joly
direzione di produzione Lucas Chardon, Martina Hochmuth
responsabile di produzione Jessica Crasnier, Briac Geffrault
La parola come accompagnamento e lettura: tre prove creative

La parola come accompagnamento e lettura: tre prove creative

Può la scrittura configurarsi come uno strumento di accompagnamento e lettura dell’atto coreografico (o performativo in genere)? Attraverso parole, immagini e suoni, Eugenia Coscarella e Arianna Perrone esplorano tale territorio e i suoi interstizi, servendosi – tra le altre – di modalità creative già avvicinate nel corso del campus pilota di dance writing ideato a giugno scorso dalla Lavanderia a Vapore, insieme a Scuola Holden e Springback Academy. La prima – attingendo alla propria ricerca sul dialogo tra danza e poesia e sui modi per lasciar emergere la parola dal corpo – attraversa lo sharing di Tabula Rasa di Doriana Crema con tutti i suoi interrogativi, facendone affiorare l’eco in sé depositata. La seconda – inviata di Lavanderia a Vapore al Dublin Fringe Festival per la mobilità prevista dal progetto How do you spell dance? (grazie alla collaborazione di Boarding Pass Plus Dance) – si lascia ispirare da alcune date della rassegna per dar vita a personali componimenti in verso libero. A offrire una sintesi tra queste due polarità è Asia Passerella, con la sua mappa di visualizzazione immediata.


TABULA RASA. Accadere nella domanda

di Eugenia Coscarella*
partecipante a Tabula Rasa: ricerca aperta | sharing
di e con Doriana Crema
4 ottobre 2022

Arrivo. Arriviamo.
Il silenzio è pieno e le sedie vuote.
Tutto è già lì, segnato, nel vuoto,
pronto ad accadere.
Allora accadiamo.

Io sono accaduta qui.
Vicino a te, lontano, altrove.
Nello spazio vuoto, tra buio e luce, noi siamo.
E altrove qualcuno ci ha già raccontato.

Ascolta “Il viaggio del testimone” su Spreaker.

Ti saluto, abbi cura dello spazio vuoto.

Podcast: parole e voce di Elena Pugliese, artista del TRA, tratto da Il viaggio del testimone, restituzione degli sharing di Tabula Rasa.

* la modalità di lavoro messa in gioco attinge a una ricerca avviata nel 2019, insieme al poeta Massimiliano Bardotti, relativa al dialogo tra danza e poesia e alle modalità di emersione della parola dal corpo, a partire da un macro-tema di ispirazione.


DUBLIN FRINGE FESTIVAL

un reportage in prosa e in versi di Arianna Perrone
10- 25 settembre 2022

Dublino a suon di Fringe è ritmo dappertutto. Son gambe ed occhi vispi, pura arte mescolata. Per le strade, nelle sale, anche dentro la cornetta, riverbera la gentilezza. L’esperienza si è rivelata una nube di giorni elettrica, carica di cura entusiasta e inventiva organizzata.

Come lo spazio
a partire dalla performance ANATOMY OF A NIGHT

Come lo spazio di un Rettangolo – largo quanto un tappetino per la doccia -, può espandersi a poco a poco? Troviamo una risposta nei gesti di Nick Nikolaou, che con la sua presenza oscilla nel movimento conquistando centimetri di spazio come centimetri di sé.

Stiamo parlando di Anatomy of a night, lavoro presentato all’edizione 2022 del Dublin Fringe Festival. Un corpo solo, in mutande, si muove nel buio. Il gesto non è sicuro né preciso, è piuttosto morbido, di una sensualità che fluisce goffa, depositandosi negli angoli del corpo per trasformarli in curve ampie di movimento.
Nikolaou abbraccia il desiderio di espressione scivolando lento dentro una sottoveste di paiette.

Gli abiti sono prolunghe, lenti colorate attraverso il quale lo guardiamo espandersi. Gioca coi suoi connotati anatomici adornandoli: stoffe, colori, luci e musica sono alleate, di una scorribanda notturna; una one shot dance for a night.

Il rettangolo dell’inizio si trasforma: il performer indossa un completo maschile e gioca alla virilità ora, quella del fumo, delle prestazioni di forza fisica, della seduzione di chi caccia. Un istante dopo è una soubrette scintillante, canta padroneggiando lo spazio, legittimandoselo come una diva: il rettangolo diventa un Palco. Il ritmo elettronico dei bassi scandisce la presenza camaleontica che sboccia in una sfilata di moda.

Il rettangolo diventato palco si fa ora: Club. Tutto luci e tacchi, cosce e bailar. La più queer delle queen giunge all’ultima esibizione. Il tempo giusto per far librare l’energia di tutti e tutte le performer che è stato e dei corpi che con tanto d’occhi, lo hanno contemplato fino a desiderare il suo posto.

E a cui ora, lascia libera la Piazza.


Monologo immaginato
a partire dalla performance ÒWE

Vi racconto cosa è stato.
Sono vivo e premo play!
Ho il feticcio scintillante
in un angolo, è invadente

Seguitemi nei sussurri
Perdetevi nei suoni
Non abbiate paura di immergervi
dentro ai richiami

Gli animali saranno presenti in sala
Ecco il registratore
schiaccio i tasti
si compone il movimento
ricompone
le memorie

echi
sordi
di antenati

ho in testa una voce
di bambino
dentro un telo a tinte vive

un uccello con le mani
sbatte le ali nello spazio

La Nigeria è
un arazzo
di radici
dentro al cuore

percussioni sono il battito
sulla pelle,
le sentite?

Pulsa una fede
che non conosco
mi vive attraverso
le stringo la mano

La incontro dovunque
nel caos del mercato
le grida sguaiate
mia mamma, la spesa

poi inizia l’Irlanda

la danza, l’attesa.


Cecco ‘22
a partire dalla performance DANCE DOUBLE BILL – TEST 1

ph. Simon Lazewski

S’io fossi schermo
mi sentirei stanco
la pellicola protettiva
mi scollerei

Getterei le notifiche nel cesso
e di notte lo ammetto,
io sognerei

Microfono e fotocamera
invertirei
per ascoltare l’eco di me stesso

Agli altri l’accesso io negherei
di silenzio forte
mi intontirei
nella giornata internazionale del vetro spento

in vasca idromassaggio
mi immergerei
per farmi seguire dal tepore

rammentare al mondo
che anch’io
mi assento

tra la fine e l’inizio del sentire

S’io fossi luce bianca,
mi scalderei
e ogni tanto da candela accesa
sarei travestito

S’io fossi social
sarei senza gusto
e tutti i pollici
io taglierei

ogni tanto
romperei il flusso

della navigazione
la bussola
stravolgerei

S’io fossi Vita
me la ballerei
e attraverserei lo schermo solo a ritmo

Tra questo e pausa
me la giocherei
divertendomi
in un tempo non ristretto

S’io fossi cavo
come sono e fui
insegnerei agli adulti
che scaricarsi
è ok

Ai bambini
a usarmi come corda per saltare
suggerirei.


Grido discreto
a partire dalla performance DANCE DOUBLE BILL – SAOIRSE NA MBAN
(There is no freedom until the freedom of women)

Raduno le mie cose

Inerme
in mezzo
a voi

Sorelle siete?
col capo reclinato

Un campo di battaglia
abbiamo addosso

i piedi di cemento, armati di memoria

sono di chi
faccia al vento
è arrivata tempo prima

è inciampata
e prima si è messa al riparo

Convinta, ingenua
che noi avremo avuto da vender coraggio

Rovente

Lancio pugni
al vuoto dolce
pieno forte
di rancore

Sono ornata di paura
testa coperta
in sovrimpressione

Se mi ridate una canzone
di quelle allegre che mi scateno
il cuore si allinea, al polso e al respiro

E magari i passi
li muoviamo assieme

Il pop porta scompiglio
l’unisono rompe la tela

Potenza come uno scherzo
verremo prese sul serio?

Scateniamoci ve ne prego
anche se ci fa paura

Tumuliamo la vergogna
sotto veli da ballerina

Siamo oltre che ben educate
siamo la miccia di una bomba
che scoppia

Polvere da sparo
lo scrocchio di un vulcano
siamo tela
in bianco grezza

Scrivici sopra
ch’io grido discreta
la mia
tenerezza.


PAROLE NELLO SPAZIO. Punti di sutura e visualizzazioni immediate

Tentativi di “collegare” l’asse Dublino-Collegno
di Asia Passerella




Per un’idea di cura: parola agli artisti associati (e qualche consiglio di lettura)

Per un’idea di cura: parola agli artisti associati (e qualche consiglio di lettura)

L’alleanza con gli artisti e l’accompagnamento dei rispettivi processi creativi è un asse fondante della Lavanderia a Vapore, inscritto in quella nozione di cura divenuta parola-guida delle attività del Centro di Residenza di Collegno per la stagione in corso ed espressa, tra le altre, attraverso processi come il bando AiR_Artistə in Residenza o τέχνη – téchne (attivi fino al 20 e al 21 novembre 2022).

cura s. f. [lat. cūra]. – «Interessamento solerte e premuroso per un soggetto o un oggetto che impegna sia il nostro animo sia la nostra attività». La cura è azione trasformativa che ci permette di creare spazi terzi, interstiziali in cui ripensare le asimmetrie e le logiche di sfruttamento: così facendo ri-media le forme del vivere, immaginando possibili altrimenti e altrove. La cura è una dedizione al possibile. In questo atto di immaginazione, le pratiche artistiche hanno un ruolo fondativo: la cura si riflette nell’ecosistema artistico che vogliamo creare e nelle estetiche che sosteniamo e che ci sostengono, nel processo di ricerca e radicamento di nuove significazioni.


Conclusi da pochi giorni gli sharing dei rispettivi percorsi di ricerca, abbiamo chiesto agli artisti associati Doriana Crema e Salvo Lombardo – che costruiscono quotidianamente con Lavanderia una specifica visione di spazio creativo e un preciso linguaggio coreografico, dando vita a orizzonti comuni di senso – la propria opinione in merito al concetto di cura e al modo in cui quest’ultima venga declinata nell’ambito della loro indagine coreografica.


Tabula Rasa mi ha aiutata a mettere a fuoco un elemento che davo per scontato: che cos’è la cura? L’ho sempre avvertita come un moto lineare, come un “andare verso qualcosa”. Oggi invece la percepisco come un moto ondivago, come un pendolo, che va e viene. Qualcosa di molto prossimo a una reciprocità. Se io ho la “presunzione” di accudire, in realtà è l’altro a restituirmi altrettanta cura. È un percorso non unidirezionale, per me, in questo preciso momento della mia ricerca. È un flusso vicendevole di andata e ritorno, dal momento che la cura ha inevitabilmente a che vedere con la relazione. Si tratta però anche di una scelta: e non è tanto il fatto che l’uomo possieda un suo libero arbitrio, ma che la cura sia in fondo anche uno stare, o meglio uno stato interiore. Aver cura di uno spazio o di una relazione non pertiene per forza l’agire ma appunto la modalità in cui si sta. E mi ricollego così a Tabula Rasa: la qualità di presenza si collega qui alla cura del modo in cui la persona è disponibile a entrare in uno spazio vuoto, dedicando tempo a tale esperienza, a tale rapporto. Ad alcuni ha restituito benessere, ad altri rilassamento, ad altri ancora ha dischiuso visioni. Le declinazioni sono dunque molteplici. Se potessimo immaginare un processo, un ordine entro cui sviluppare le varie fasi della cura credo si debba necessariamente partire dal sé, per espandersi poi – come procedendo per cerchi concentrici – allo spazio esterno e a chi lo abita. La cura insomma investe direttamente la dimensione spaziale (e temporale). Esempio rappresentativo, in tal senso, è la stessa Lavanderia a Vapore, con la sua storia e la sua missione: quel luogo ha conosciuto la sofferenza, la cura è stata – per molti aspetti – distorta. Per potersi trasformare davvero, quello spazio ha avuto bisogno di un tempo, di qualcuno che se ne prendesse cura. E tutto il lavoro di bellezza portato avanti a Collegno continua a tenere pulito quell’ambiente. Quindi, il come io mi pongo in un determinato spazio modifica, negli anni, la struttura dello spazio stesso.

Doriana Crema, danzatrice, coreografa, formatrice e counselor

ph. Andrea Macchia

Dopo la prima parte della residenza, in primavera, il progetto è tornato in Lavanderia a ottobre. A maggio avevamo provato con lo staff a inventare un dispositivo che permettesse alla residenza di aprirsi e chiudersi tutti i giorni, imitando la dinamica polmonare. L’obiettivo era allora sviluppare un’idea e renderla però da subito accessibile, attraversabile, da altri saperi. Nella settimana trascorsa recentemente a Collegno ho invece lavorato in modo diverso: sette giorni completamente solo, isolato, per condividere in maniera pubblica soltanto alla fine. La modalità di apertura è stata esemplificativa del progetto in generale, della forma che esso sta assumendo attualmente, della nozione di cura e della sua modalità di indagine. Breathing Room ha conosciuto infatti un’apertura tramite un formato preciso, a cavallo tra l’ambiente installativo, la pratica guidata, la meditazione orale e la performance. Quindi l’ingresso in questa stanza ha significato muoversi e scivolare tra differenti modalità espressive. È diventata insomma una realtà ideale, più che fisica, un ambiente di relazioni in cui il pubblico ha potuto fare una specifica esperienza legata al respiro (in taluni casi in senso letterale, attraverso pratiche corporee e indicazioni somatiche). In effetti, durante lo sharing di metà ottobre, si è trattato di dar vita a una stanza che permettesse a tutti di respirare, ciascuno secondo la propria predisposizione, di prendere parte, di trovare una posizione all’interno di quest’ambiente a partire dalle proprie necessità, dalla propria postura di quel momento. Il secondo livello di creazione e interazione ha toccato invece la nozione di cura: ho infatti invitato Cristina Kristal Rizzo ad abitare questo spazio di relazione e soprattutto a costruire una performance in tempo reale, senza alcuna prova o anteprima e soprattutto senza repliche future. Questa scelta nasceva dalla volontà da una parte di creare un doppio livello di esperienza (e quindi un’esperienza a cui tutti potessero accedere e in cui tutti potessero stare, interagendo eventualmente), dall’altro di imperniare tale esperienza sul corpo di una dance-maker informato da un preciso codice artistico. Questo processo mi ha permesso così di riflettere sulla cura. Chiedendo infatti a una collega di “prendersi carico” di un pezzo di performatività (una scelta connessa con il mio desiderio di perdere un po’ controllo, di disperderlo, rispetto all’atto di creazione), ho implicitamente voluto compromettere i principi di autorità e di potere nella creazione artistica stessa. A quel punto l’interrogativo per me è diventato: “Respirando insieme in quell’ambiente, di chi è quell’azione, chi ne detiene l’autorialità?”. Il corpo, la soggettività, si affida, attraverso una pura e nuda presenza, che a sua volta l’artista non può controllare, perché non dispone delle coordinate che la informano, se non quelle ottenute in tempo reale. Cura dunque come restituzione di un atto di fiducia e richiesta da parte dell’artista di un atto di cura, tramite l’affidarsi. Cura – ancora – nel senso di creare una condizione che protegga, che accompagni, che garantisca a quella presenza di essere nel posto giusto, di essere a fuoco in quel preciso istante.

Salvo Lombardo, performer, coreografo e regista

Qualche spunto per approfondire…

  • M. Fragnito e M. Tola (a cura di), Ecologie della cura. Prospettive transfemministe, Orthotes Editrice, Napoli-Salerno 2018
  • The Pirate Care Project → clicca qui
Quello che invidio dell’usignolo: a dialogo con Daniela Nicolò, Enrico Casagrande e Stefania Tansini

Quello che invidio dell’usignolo: a dialogo con Daniela Nicolò, Enrico Casagrande e Stefania Tansini


ideazione e regia Daniela Nicolò, Enrico Casagrande
con Stefania Tansini
ambienti sonori Demetrio Cecchitelli
suono Enrico Casagrande
luce Theo Longuemare
props e sculture sceniche _vvxxii
una produzione Motus
con TPE – Teatro Piemonte Europa / Festival delle Colline Torinesi
residenze artistiche ospitate da Lavanderia a Vapore e Centro nazionale di produzione della danza Virgilio Sieni
con il supporto di MiC, Regione Emilia-Romagna


La Lavanderia a Vapore ha facilitato l’incontro tra la danzatrice Stefania Tansini e il gruppo dei MOTUS, per una residenza creativa – svoltasi a Collegno dall’11 al 17 settembre – in collaborazione con TPE e Festival delle Colline Torinesi, in preparazione del solo Of the nightingale I envy the fate, in scena alla Fondazione Merz di Torino dal 4 al 6 novembre 2022.