ARCHIVIO LIQUIDO

ARCHIVIO LIQUIDO

La memoria è una coreografia sensuale, che nasce segretamente dentro di noi. 

Grazie al magico portale dei sensi, il mondo esterno si connette al nostro mondo interno, evocando emozioni, affettività, esperienze, informazioni, ricordi che si impastano tra loro nel nostro oceano interiore. Qualcosa ci attraversa, sprofonda, emerge, riaffiora – la coreografia si rivela come organizzazione e riorganizzazione sensuale, di ciò che si muove e come si muove dentro di noi.  

L’archivio liquido è una pratica rituale-simbolica che indaga la memoria, come processo coreografico che si attiva nel qui ed ora. 

L’acqua, metafora del nostro oceano interiore e il calore, ci permettono, inoltre, di fare esperienza della memoria, come processo alchemico-trasformativo, per distillare nuove immaginazioni, visioni, conoscenze, informazioni a partire dagli eventi pubblici di Lavanderia a Vapore.

La memoria secreta diventa una pozione per nuovi futuri possibili. 

La memoria è un linguaggio segreto.

Qual è il destino della memoria?

Un progetto e testo a cura di Eugenia Coscarella e Kadri Sirel.

TATAMI TALK

TATAMI TALK

Il copia-e-incolla di frammenti di film horror, un metodo ispirato alla residenza di Teodora Grano „Grindhouse: Cosa sanno i film horror di noi?“, propone un’estetica che incorpora i materiali raccolti dal Tatami Talk “Perché abbiamo tutti così tanta fretta?” tenutosi nel festival Dark MatterS. Sotto forma di dialogo orizzontale, gli adolescenti, influenzati dal ritmo della società della performance e dalla stanchezza all’interno del loro sistema scolastico, hanno invitato gli adulti a prendersi una pausa e a discutere del senso di questa frenesia. 

Prendendo spunto dal genere horror come specchio degli incubi collettivi, delle ansie sociali e delle paure più profonde della nostra cultura, la seguente documentazione rielabora le riflessioni emerse durante il talk in una sceneggiatura horror, dove l’incessante movimento della società contemporanea si trasforma in una fuga da ciò che non vogliamo affrontare. 

Perché abbiamo tutti così tanta fretta? 
Quali sono i mostri che ci inseguono? 
Cosa succede davvero se non rispettiamo una scadenza?

FADE IN: 

INT. SPAZIO VUOTO – TEMPO SOSPESO 

Un gruppo di persone immerse in una luce soffusa. L’aria vibra di pensieri sospesi. Ognuno parla, come se rispondessero a una domanda invisibile. 

PERSONA 1: Perché abbiamo tutti così tanta fretta? 

PERSONA 2: Perché non vogliamo perdere tempo. Il tempo è un bene prezioso. 

PERSONA 3: Perché ci sono troppe cose “interessanti”… come scegliere a cosa dedicarsi? 

PERSONA 4: Perché abbiamo perso la capacità di annoiarci.  

PERSONA 5: Perché tutto questo affanno? 

PERSONA 6: Perché vai di fretta? Se ti serve, io ti aspetto. Si perde chi non si ferma ad osservare. È solo la cecità che ti spinge a scappare. 

PERSONA 7: Perché abbiamo la percezione di avere poco tempo—dedichiamo molto tempo a quello che dobbiamo fare.  

(Una risata sommessa. Altri si avvicinano.) 

PERSONA 8: Perché correndo ci illudiamo tutti di sfuggire alla morte. 

PERSONA 9: Frenesia. 

PERSONA 10: Troppe cose da fare in poco tempo. 

PERSONA 11: Stress. 

PERSONA 12: Perché siamo sempre troppo sotto pressione. 

PERSONA 13: Perché i ritmi di lavoro lo richiedono.  

PERSONA 14: Perché l’ansia ci domina e ci suggerisce che il mondo non aspetta. 

PERSONA 15: Perché non siamo capaci di ascoltare i nostri pensieri nel silenzio. 

PERSONA 16: Per non essere travolti dall’horror in cui il tempo lento ci butta. 

(Un lungo respiro collettivo. Sguardi scambiati.) 

PERSONA 17: Cosa posso tralasciare e cosa ha priorità? 

PERSONA 18: Perché pensiamo che debba essere fatto tutto subito? E se decidessimo che i piani stabiliti possano essere realizzati senza un tempo definito? Se le pause fossero naturali come il respiro? 

(Un lieve brusio di approvazione. Un’altra voce emerge.) 

PERSONA 19: Perché ci sono tanti input, col desiderio di vivere tutto! 

PERSONA 20: Perché c’è paura di avere poco tempo o di non vivere abbastanza esperienze. 

PERSONA 21: Perché bisogna essere informati su tutto ma senza sembrare saccenti. 

PERSONA 22: Perché devi fare più esperienze possibili, altrimenti cosa stai facendo della tua vita?  

PERSONA 23: Perché il tempo in cui non fai nulla è considerato sprecato, e quindi ci riempiamo di cose da fare per non pensare a chi siamo davvero. 

(Un rumore di passi. Qualcuno lascia la stanza.) 

PERSONA 24: Perché hanno diviso la nostra vita in tappe. 

PERSONA 25: Perché ci chiedono: Dove ti vedi a trent’anni? E a quaranta? Cosa vuoi fare da grande? E poi ci dicono: “Non avere fretta.” Io ho paura del tempo che passa, ma ho fretta di trovare il mio posto.  

(Un silenzio denso. Un ticchettio, come un orologio lontano.) 

PERSONA 26: Perché noi europei abbiamo inventato l’ora, ma non abbiamo mai il tempo. 

PERSONA 27: Perché devi uscire a ballare, ma anche prenderti del tempo per te. 

PERSONA 28: Perché dobbiamo tenere in equilibrio tanto… troppo… 

PERSONA 29: Perché la società di oggi lo impone. 

(Un fruscio di stoffa. Qualcuno si alza. Una voce gentile) 

PERSONA 30: Oh, oh, fermati! Fai un bel respiro. L’unico a correrti dietro sei tu. 

(La tensione si scioglie appena. Un ultimo pensiero.) 

PERSONA 31: Questa perenne ansia ce l’ha messa il consumismo, che ci vuole sempre perfetti, efficienti e nel minor tempo possibile. 

PERSONA 32: Perché lo standard che viene richiesto a ognuno di noi è troppo alto. 

PERSONA 33: Perché ci illude che fare sia più semplice di stare.  

PERSONA 34: Perché a volte quello che mi guida e orienta i miei comportamenti è una memoria, un’abitudine, che mi ha abitato in momenti in cui non mi era permesso riposare. 

PERSONA 35: Perché le pressioni esterne diventano interne e si trasformano in abitudine. 

FADE OUT. 

Il testo è una rielaborazione delle riflessioni emerse durante il talk Tatami “Perché abbiamo tutti così tanta fretta?“, tenutosi alla Lavanderia a Vapore il 16 febbraio 2025. 

L’estetica horror fa riferimento alla residenza e alla performance di Teodora Grano „Grindhouse: Cosa sanno i film horror di noi?“, svoltasi alla Lavanderia tra il 2 e il 16 febbraio 2025. 

Il video è montato da Kadri Sirel, utilizzando clip tratte dai seguenti film: 
Psycho (1960) di Alfred Hitchcock, Suspiria (1977) di Dario Argento, Phenomena (1985) di Dario Argento, The Exorcist (1973) di William Friedkin, Carrie (1976) di Brian De Palma, Wolfman (1941) di George Waggner, Nosferatu (1922) di Friedrich Wilhelm Murnau. 

CONVERSATIONS WITH THE LIGHT

CONVERSATIONS WITH THE LIGHT

What do you summon? How do you deceive? Do you wish to challenge eternity?
Can we have a chat?


I enter the house and touch the switch. You diffuse. Do you like the theatre? You belong more to time than to space. You sculpt and you severe. In theater, light reveals and so does the dark.
In theater, everything hidden shows. What do you think?

At times, the very first tear my away from my .

What makes you so fast?
Where do you go at night?
Which legends do you follow?

We have a few about you.

Can you see yourself?

If you were reversed, would you still be the same? If you were emptied, too? Are you tired? What happens when darkness arrives?

Is darkness your sister or another face of yours?

She creates space, makes room for something unseen. Who are you? Do you know that sometimes we are afraid of the dark?

It transports us to a outside of , where there is neither nor .

opens up.


Do you agree that in theater, both darkness and light are artificial: fake darkness and fake light?

The of perceptual is or . At the same time, this of is entirely filled with —a that is not the of , but rather the of a sensation, even more than that of a .

Darkness, just like consistency, seems to be more linked to matter, to fullness rather than absence. Do you agree that true darkness never exists, not even in nature?

If there are any , they reach only
after having passed through that .

Perhaps in theater true darkness can exist? How can I construct you?



Darkness agglomerates, it unites.
What do you think?

How do we enter and navigate the darkness? How do we let it enter and guide us, take over us? Engaging with darkness not as a zone of fear but as a realm of the unseen, of summoning forces, of appearance and disappearance from the invisible, and of optical illusions that transcend the power of the gaze have been at the centre of Lavanderia’s thematic trajectory over January and February, culminating with the Dark MatterS winter festival and celebrating darkness as a space-time in which to see present and future with other lenses.

This documentation composts materials from the collective residencies τέχνη – téchne and Annotazioni Superficiali, which researched spatiality and the dynamic of listening respectively through the mediums of theatrical light and sound, and the artistic residency and performance Alloro_varietà aurea (by the company Technologia Filosofica) with its exploration of the body, it’s capacity to open spaces and summon ghosts by illuminating and making sound appear. The documentation captures the iconography of fleeting forms into a transmutation that transcends all three events. What emerges, instead, is a reflection reminding us of our need to mythologize impermanence –

such as the darkness –

in order to elude fear by reappropriating the fantastic.

Mythologization unfolds as a complex system of representation where the knowledge of the body and senses summon a plurality of knowledge, celebrating the multiplicity of how darkness can be experienced, practised and conceptualized beyond its conventional opposition to light. Mythologization transforms the collective experience into a symbolic expression, animating darkness into a poetic object – a totem to have conversations with, to navigate and resignify the unknown.

The text is cut up from thoughts and conversations that emerged during the residencies of τέχνη – téchne and Annotazioni Superficiali.

The drawings are created by the students of class 3P of Primo Liceo Artistico di Torino in the frame of Alloro_varietà aurea artistic residency at school.

Article and video by Kadri Sirel.

WHY ALL THESE QUESTIONS?

WHY ALL THESE QUESTIONS?

As the new year unfolds, we take a moment to celebrate 2024 as the first year of documentation practices guiding the work on our Blog by gathering questions which have emerged from various artistic residencies and projects into a speculative scrapbook, mixing them up and allowing them to liberate our imagination beyond the micro and the macro layers of cultural work – to shake postures and invoke alternative visions by assuming that performance transverses the context of artistic residencies and recognizing a quality of artistic research within the cultural institution at large.

Asking questions, here, is a research tool, a method and a posture of dialogue and discovery, one that resists the idea of a singular truth, that can be owned and asserted. Instead, forming questions is a restless practice of seeking possibilities by unearthing key issues and igniting movement towards desired directions.

“A paradigm shift occurs when a question is asked inside the current paradigm that can only be answered from outside it.”

The paradigm-shifting capacities of porosity as captioned by professor Marilee Goldberg in The Art of the Question, ornament the embedding to this speculative scrapbook where questions are dislocated: picked from their original context and placed into new collages where their initial relevance is traversed,
opening an imagination to what is beyond the visible,
creating phantasmagoric hunches about

the possible cultural institution.

We take a suggestion from Iceberg, a process by the associate artist Salvo Lombardo that fosters practices of porosity and reciprocity between the artist and an institution. The iceberg, with its measurable peaks and its hidden mass, bulk and power, lends itself to imagining an intricate relational warp, a concatenation of forms of doing between the micro and macro, the visible and hidden – that translated into layers of cultural work vary between the creative residencies, programming activities, network projects; and the larger organizational context, the relational textures and community structures that surround, support and feed them.

The image of an iceberg gently disintegrates the traditional verticality of an organization’s social dramaturgy by insisting on the presence of visible and invisible entanglements, a network of mutually traversing discourses that affect the vision and design of a possible institution.

The following is an invitation to play and speculate together to further deconstruct the verticality of a cultural institution and move towards what’s possible by allowing our imagination to wonder,

what if the questions that emerged from choreographic processes, studio practice and research, were applied in the institutional dimension of cultural work?

Which visions appear?

MANIFEST NO 3, MARCH 2024

Questions harvested from:
Come stiamo?, the artistic residency of Anna Basti
DANCE WELL: come viaggia la traccia?, Gaia Giovine Proietti’s documentation of the Dance Well project
DARK MATTERS: nel cuore dell’abisso, The Dark MatterS Winter Festival 2024
Come si coltiva il desiderio?, the Take-away Archive
I campi gravitazionali, a project in the frame of Forever Young
ICEBERG: residenza artistica di Salvo Lombardo, the artistic residency of Salvo Lombardo
Il tempo delle mele, a project involving groups over 65
In the meanwhile, the collective research project Interspazio
L’ECO DELLE PAROLE: un manifesto poetico sull’adesso, an artistic residency at school in the frame of School of Wish
PALESTRA DEL FEEDBACK: formulare e riformulare la domanda, a collective residency of feedback

Collected and curated by Kadri Sirel

ICEBERG: residenza artistica di Salvo Lombardo

ICEBERG: residenza artistica di Salvo Lombardo

L’Iceberg è una massa che fluttua, un paradosso della fisica fatto di stratificazioni che ha il potere di emanare rifrazioni o far infrangere utopie: ha un potere di inversione di rotta e istigazione del cambiamento, in modo visionario o catastrofico.

In un momento di transizione, liquefazione di terraferma e fluttuazione identitaria, le istituzioni artistiche cercano nuove forme cangianti che possano far sgorgare nuovi immaginari e accompagnare nuovi modi di crearli. Non ci resta che abbandonare la rigidità arroccata sulle forme di lavoro e pensiero consolidate in modo calcareo, in cerca di nuove soluzioni che adottano la lateralità delle pratiche artistiche e il pensiero immaginativo come solvente e amalgama per impostare nuovi organismi, con nuovi valori, competenze, modalità e strategie di sviluppo.

Il progetto Iceberg si configura come uno spazio di ricerca comune tra un artista e un’istituzione – in cui poter immaginare prototipi ed emersioni di una drammaturgia istituzionale.

relazione_

Scrivo questi pensieri mettendo in campo il mio sguardo in soggettiva. Uno sguardo che riflette essenzialmente la mia relazione con la Lavanderia a Vapore che negli anni si è modificata, tracciando nuove traiettorie e nuovi margini di reciprocità, che sono ancora in ricerca.

In particolare queste note sono il rilascio di una piccola essenza del mio dialogo con Chiara Organtini sin dal suo ingresso alla guida di questa istituzione e con tutto lo staff, che nel tempo (e in particolare nel corso del 2024) si è incentrato su

una possibile ridefinizione della relazione tra
artista e istituzione.

Abbiamo lavorato per ridare significato al mio inquadramento di artista associato della Lavanderia e al contempo rivedere le priorità, le aspettative, le possibilità della Lavanderia rispetto al mio percorso artistico.

In questa forma di relazione biunivoca la Lavanderia è uno spazio dove la dimensione della cura incontra, prepara e nutre il terreno delle pratiche. Un luogo in cui l’attitudine alla ricerca si manifesta come centrale e si delinea come una prassi utile, tra le altre cose, a liquidare i confini tra il deposito affettivo e l’emersione pubblica delle pratiche, dei concetti e dei gesti che animano il lavoro artistico.

Quello che segue è una piccola collezione di istantanee. Una costellazione di pensieri che testimoniano una relazione (e un lavoro) che si racconta nel suo svolgersi.

iceberg_

Ho avuto modo, negli ultimi anni, di lavorare ad un progetto di ricerca condiviso con una più ampia comunità artistica su larga scala europea, basato sul rapporto tra danza e drammaturgia e sull’intreccio tra micro drammaturgia e macro drammaturgia, definendo cioè la drammaturgia come pratica attiva capace di riferirsi sia ai processi strettamente creativi sia al contesto che li alimenta.

Cambiare l’assetto della mia relazione con la Lavanderia a Vapore mi ha dato modo di mettere in pratica le mie ricerche sulla drammaturgia della danza e, in generale, di articolare un pensiero condiviso sulla

prototipazione di una drammaturgia
istituzionale.

Ho individuato nella figura dell’Iceberg l’impalcatura concettuale utile a evocare questo discorso. Così Iceberg è diventato il progetto di abitazione prolungata che con la Lavanderia abbiamo sviluppato nel corso del 2024 per dare forma a pratiche di reciprocità tra artista e istituzione.

L’iceberg è una massa cangiante, solida e vulnerabile allo stesso tempo; compatta strutturalmente ma fluida. L’iceberg è anche il disvelamento di un inganno pregiudiziale: ovvero si presta a emersioni riconoscibili in quello sfoggio della sua parte emersa, delle sue vette misurabili; tuttavia, di solito, è più la sua natura “profonda” che ne caratterizza sostanzialmente la mole e la potenza; questa massa – al di là del visibile – è un intricato ordito relazionale, una concatenazione di forme del fare tra il visibile e l’invisibile, tra il micro (la vetta) e il macro (ciò che sostiene quella emersione).

In questa dinamica come agisce una drammaturgia?
Cosa “scrive”?

Per rispondere è utile distinguere tra pratiche di “costruzione drammaturgica” (per esempio di una performance) e la più ampia “funzione drammaturgica” che determina le coordinate entro cui una determinata “scrittura” si muove.

Penso infatti alla “funzione drammaturgica”, oggi, come ad un processo estremamente poroso e non concentrato solo sulle componenti linguistiche interne al lavoro (livello micro); questa funzione a cui mi riferisco, al contrario, parte da un livello di macro drammaturgia e ha una temporalità potenzialmente inesauribile che precede, nutre e accompagna tutte le fasi del lavoro.

L’esercizio di questa forma di drammaturgia è un esercizio inter-soggettivo che richiede una suddivisione delle funzioni drammaturgiche tra chi “scrive” il processo artistico e l’istituzione che lo “trascrive” .

Il sistema delle performing arts molto spesso continua ad identificare un lavoro artistico con il suo esito finale, con la punta dell’iceberg. Dunque secondo questo pattern lo spettacolo, inteso come unica manifestazione del visibile, tende, a comprimere, a nascondere tutte le relazioni e le spinte che hanno portato all’emersione di quella vetta.

Ritengo, al contrario, fondamentale tenere in vita l’intera massa dell’iceberg; percepire questa massa come una massa pulsante e inesauribile, come qualcosa di più articolato e che può essere ridotta alla semplice “propedeutica” di costruzione del lavoro. Questa massa è situata in una zona di confine e richiede l’invenzione di spazi “in between” che possano legittimarla come parte centrale del lavoro.

Se dunque il livello micro-drammaturgico è circostanziale all’opera, cioè legato ai codici impliciti della scena, al suo linguaggio e dunque ai suoi livelli di scrittura, la funzione macro-drammaturgica invece riguarda il contesto, o meglio i contesti, intesi come sistemi di riferimento ambientali entro cui ha origine quell’opera (comprese le dinamiche sistemiche). Il contesto quindi non è la cornice di un evento, ma può coincidere con l’evento in sé e la sua trama di relazioni può indurre a invenzioni linguistiche che la contengano e la qualifichino come “cosa”. Per questo, in senso ideale, il livello micro e quello macro di una ricerca artistica non sono mai scindibili; l’uno informa l’altro. La mia funzione, all’interno del progetto Iceberg, è quella di forzare, con la mia attività, i confini tra produttivo e improduttivo, tra le pratiche e l’elaborazione teorica, tra la trasmissione e la composizione e soprattutto di auto disciplinare il privilegio della ricerca (privilegio solo se inquadrato dal punto di vista di un sistema che ne disconosce in parte la funzione, in particolar modo nell’ambito delle arti performative).

Autodisciplinare significa anche non delegare del tutto, non isolarsi nella stiva ma affiancare il pilota, immaginarsi co-pilota per alcuni tratti del percorso. La postura di chi fa ricerca è peculiare in ogni ambito: forme di autogoverno e interazione costante, forme di radicale indipendenza che dialogano con orientamenti o addirittura con forme di implicita o “esplicita committenza”.

Per mettere in pratica un modello come questo, pertanto, è necessario però che una Istituzione come un centro di residenza per la danza (ma vale per tutti i centri che accompagnano la creazione artistica contemporanea) renda porose le sue politiche culturali e si alleni a pensare l’ambito delle relazioni tra soggetti come parte preponderante della creazione e non come una parte subordinata allo svettare dello spettacolo.

Una istituzione che voglia farsi carico di questa necessità può impegnarsi legittimando forme di “comprensione additiva” delle cose, come dicevo prima, nonché formati che includano anche ciò che non è direttamente riconoscibile come un “evento performativo” oltre la cornice “rappresentazionale”

e impiantando nuove pratiche curatoriali che
mettano in relazione e integrino: bisogni,
necessità, punti di vista, aspettative tanto
dell’artista quanto dell’istituzione, assumendo il
rischio di transitare in zone intermedie, tra il
visibile e l’invisibile, tra micro e macro e
riqualificando di volta in volta la propria
posizione e la propria funzione.

Forse è diventato necessario rivendicare forme radicali di viscosità e pensarsi come organismi complessi e irriducibili.

come-cose?_

Negli ultimi anni abbiamo deciso di non soffermarci solo sull’orizzonte tematico delle nostre rispettive traiettorie di ricerca – la mia come artista e quella della lavanderia come centro di residenza – ma di mettere a fuoco anche i modi del nostro operare, nella consapevolezza che i modi non sono una veste né un semplice assetto comportamentale, bensì la sostanza che determina gli stessi temi. Abbiamo, in sostanza, cercato un bilanciamento tra le “cose” che si vogliono realizzare e un “come” farle. Un rapporto COME-COSE, mi piacerebbe dire, che permea le abitudini di entrambi gli ambiti: quello del fare segnato dalla “produttività” e quello di un fare auto riflessivo che rivendica il suo stare in ricerca.

Rinominare le COSE significa riformulare le domande che normalmente si presume abitino i processi artistici; quelle domande dalle quali scaturiscono temi di indagine e da cui a cascata possiamo desumere delle poetiche. Questionare il COME, significa invece non trascurare il contesto entro cui quelle domande sorgono. Lasciarsi informare dal macroscopico.

Immaginare che l’ambiente non avvolge solo le
cose ma le orienta.

Chiedersi COME ci si situa (o ci posiziona) nell’atto di guardare le COSE. La creazione artistica presuppone una occupazione transitoria di spazio e tempo.

Qual è la mia postura in questa occupazione?

Quali sono le domande che a mia volta, come artista, pongo all’istituzione che mi accompagna?

Quali sono i margini di co-invenzione che posso allenare?

Come posso avanzare risposte che tengano conto delle mie prospettive e che al contempo considerino il campo di enunciazione che le accoglie?

Come un artista e un’istituzione possono mettere in relazione le tensioni e le spinte specifiche che caratterizzano la loro operatività, orientando quelle tensione verso una dimensione trasformativa e pubblica?

Cosa ridefiniamo insieme la caratura dello spazio e del tempo occupati dai processi artistici?

Occupare COME occuparsi. Occuparsi COME curare COSE. COME-COSE: un atto di cura, essenza della ricerca.

ipotecare la produzione_

La lavanderia a Vapore è un centro di residenza che interpreta la sua funzione istituzionale situandosi come un luogo in cui mantenere in vita la ricerca, valorizzandola come anticamera del fare ma al contempo – e questa è la propensione che richiede reciprocità anche come un fare che si basta.

Un centro di residenza di questo tipo è uno spazio che dà espressione a manifestazioni “visibili” del lavoro artistico (residenze creative e produttive, attività di programmazione, progetti di rete e ogni forma di esternazione misurabile e quantificabile) e che al contempo coltiva il desiderio di generare processi che spostano l’attenzione sui soggetti più che sugli “oggetti” del fare (reinventando nuovi approcci per la trasmissione dei saperi, pratiche di autocoscienza, ripensamenti metodologici, sperimentazione didattica e azioni che negoziano la propria “infallibilità” a partire da un impianto comunitario, da una tessitura relazionale e dalle sue variabili e soprattutto accudendo la fluidità di pratiche e discorsi che necessariamente si impongono – oggi – come in transito e in transizione, affamati di amichevoli sostegni e alleanze).

Tutte azioni – quelle che caratterizzano questo tipo di processi – che possano – volendo – non essere preludio di alcuna opera, impermanenti nella tessitura di ciò che tende verso un “invisibile”, la cui efficacia non è misurabile nell’immediatezza “performativa” del qui e ora, ma solo in prospettiva. Questo spazio che sto evocando, rispetto alle logiche produttive usuali e diffuse, può operare dunque nella dimensione del “prima” e può qualificarsi anche nella categoria del “in-sé”.

Un’istituzione che si occupa di ricerca, in tal senso, può dirigere le sue funzioni muovendosi con radicale capacità immaginativa tra il campo della semina e quello della coltura. Facendosi custode di una fiducia (una fiducia generativa e gravida di futuro) che caratterizza ogni stagionalità e ogni ciclo produttivo. Facilitare la fioritura e accudire una produttività intempestiva. Una produttività “ipotecabile”.

comprensione additiva_

Se avvicino a me l’oggetto o se lo rigiro fra le dita per “vederlo meglio” lo faccio perché per me ogni atteggiamento del mio corpo è immediatamente potenzialità di un certo spettacolo, perché ogni spettacolo è per me ciò che esso è in una certa situazione cinestetica, perché, in altri termini, il mio corpo è perennemente posto in stazione di fronte alle cose per percepirle.
Maurice Merleau-Ponty

Si può rendere obliqua la produttività solo incoraggiando un andamento non necessariamente lineare, accogliendo pratiche complementari, allentando la presa sulla classificazione e sulla suddivisione disciplinare degli ambiti e dei ruoli.

Questo è possibile solo interpretando la propria pertinenza e il proprio inquadramento come funzione generativa e non circoscrivendo confini e inquadramenti disciplinari rigidi. Anche questa è una pratica che può essere enunciata dal punto di vista di un ampliamento dell’assetto qualitativo del fare, dandosi la possibilità di sbullonare, quando necessario, tassonomie e parametri solamente quantitativi. Dal punto di vista dell’istituzione si tratta, probabilmente, di aggiornare o riformulare la propria capacità interpretativa (rispetto all’esistente) e di operare scelte (lungimiranti, visionarie, avventate e predittive – quasi magiche) e rispetto alle pratiche artistiche dell’esistente). Dal punto di vista dell’artista, credo, si tratti di allargare lo sguardo, di estroflettersi, muoversi dinamicamente dalla conca del solipsismo verso una “comprensione additiva” di modelli e di “sistemi”.

Per me, per il mio percorso, abitare uno spazio come questo significa, nella pratica, dare dimora a tutte le forme generate dalla mia ricerca, permettendo loro di convivere e coesistere alimentandosi a vicenda, in un regime di reciprocità non gerarchica. Si tratta di aumentare i varchi di accesso alla percezione e quelli legati all’esperienza delle cose. Nell’ultimo anno in particolare, nel mio lavoro per e con la Lavanderia a vapore, ho tentato di non fare convergere in un unico punto le mie pratiche. Qui ho trovato la complicità e il tipo di sostegno necessario per un ampliamento dei nodi discorsivi, per una ramificazione della mia prassi artistica, una espansione dei miei “canali produttivi” e dei miei “apparati mediali”, la cui produttività diverge a partire da un nucleo, come un organismo tentacolare.

abitare_

Per dare espressione a questo tipo di pratica con Chiara Organtini abbiamo deciso di manomettere, nel corso dell’annualità 2024, la definizione di artista associato così come l’avevamo intesa in passato.

Abbiamo immaginato che non fosse più sufficiente pensare le mie residenze in Lavanderia solo come il luogo d’elezione in cui impiantare i miei processi strettamente artistici (ovvero quei processi più legati alla realizzazione e dunque al versante produttivo del mio percorso). Abbiamo tentato di ridisegnare lo spazio e il tempo della mia abitazione della Lavanderia come uno spazio-tempo prolungato e di reindirizzare le risorse economiche a disposizione per impiantare un tempo per la ricerca, una ricerca potenzialmente stanziale.

Non più lo spazio e il tempo circoscritto del formato residenza ma una disseminazione di attraversamenti posti in continuità.

Nello specifico la Lavanderia ha sostenuto una serie di lunghe residenze ricorrenti nel corso del 2024, durante le quali potessi muovermi fluidamente tra momenti di ricerca intorno ai miei attuali e futuri progetti coreografici, momenti di osservazione del lavoro di altrə artistə ospitatə in residenza, partecipazione a momenti di pianificazione delle attività dello staff della Lavanderia, attraversamento delle attività di programmazione e in particolare dei vari formati di festival articolati nel corso dell’anno e momenti di rielaborazione di quanto osservato e di restituzione di pensieri e chiavi interpretative sul lavoro svolto. Abbiamo condiviso una domanda che ci guidasse in questa sperimentazione:

come un artista e uno spazio possono costruire una rete di intrecci visibili e invisibili, attraversando reciprocamente discorsi, parole, pratiche che abitano la Lavanderia per incidere sulla visione e sulle traiettorie progettuali future di un’istituzione possibile ?

Il testo di Salvo Lombardo
con i collage di Kadri Sirel