La vera sfida della danza contemporanea, oggi, si potrebbe così riassumere: trovarsi in una delle tante cittadine italiane e ricevere una risposta più o meno esaustiva alla domanda “cos’è la danza contemporanea?”. Troppo spesso, invece, continuiamo ad essere ricambiati da uno sguardo vacuo e perplesso, come se quarant’anni di produzione contemporanea storiograficamente attestati fossero ancora insufficienti a legittimare questa pratica e porla sul piano del pubblico dominio. La situazione si complica se si prendono in esame le piazze “periferiche” delle province: la danza contemporanea non arriva nelle campagne italiane. Si tratta certamente di una generalizzazione e, per fortuna, esistono virtuose eccezioni, ma occorre ammettere come questo rappresenti piuttosto fedelmente la nostra realtà.
Che la danza costituisca di per sé un interesse di nicchia, e che la danza contemporanea ne sia un ulteriore sottoinsieme, è un dato di fatto. Quello che invece è indispensabile osservare è come in Italia venga a mancare oggi un discorso collettivo intorno alla danza. Il problema non risiede nei numeri e nello sbigliettamento: allargando il punto di vista, quello che manca oggi è una cultura del contemporaneo e un relativo immaginario pubblico. La danza, dagli anni Ottanta ad oggi, ha subìto uno scollamento radicale tra la visione condivisa e la sua pratica concreta, che troviamo invece nelle sale, nei teatri, nella ricerca degli artisti. E se nei centri urbani maggiori la danza contemporanea ha cominciato ad affermare la propria identità, sia come forma spettacolare che come pratica attiva in diversi ambiti (scolastico, sociale, terapeutico, di intrattenimento ecc.), essa stenta ancora a raggiungere le scene minori delle province e delle città più piccole.
Ma perché la danza contemporanea qui “non arriva”? Diverse sono le cause oggettive: il problema spaziale è un limite enorme; molte delle strutture che ospitano le stagioni teatrali hanno palcoscenici e spazi ridotti o non idonei: si pensi alla pavimentazione o agli impianti illuminotecnici; non è sottovalutabile poi il problema dei costi: una pièce danzata da molti artisti avrà un costo di programmazione nettamente elevato; ma, se un pezzo solistico di prosa permette un cachet ridotto ed è in grado di reggere uno spettacolo a serata intera, più complesso è il caso di un corpo solo che danza, il quale presenta oggi molti più problemi di linguaggio e di interpretazione. Così, un’arte performativa senza apparenti barriere linguistiche o strumentali, continua ad essere considerata con diffidenza, come prodotto elitario e complesso da comprendere, per il quale occorre possedere un certo allenamento dello sguardo. Il gap resta culturale, causato dalla scarsa familiarità che questi pubblici riescono ad acquisire con la danza contemporanea: prodotto troppo rischioso da proporre, gli spettacoli di danza restano l’eccezione all’interno delle programmazioni. Un ruolo importante viene giocato qui dai circuiti multidisciplinari, che facilitano la distribuzione, ma si segnala un’altra grande difficoltà: il mantenimento di un dialogo attivo con gli enti che operano su territori distanti dal capoluogo: se nel teatro cittadino viene offerto uno spettacolo e le scuole di danza del territorio (uno dei principali destinatari dell’offerta) non vengono avvisate, la responsabilità è dell’ente territoriale che non ha l’interesse o la capacità di creare una rete efficace, almeno informativa, con le proprie associazioni.
Apparentemente dunque, le cause del problema sono tutte esogene. Occorre però notare come le realtà territoriali in esame pullulino di piccoli enti e associazioni che con grandissimo impegno garantiscono una programmazione culturale anche molto varia (e bene accolta); eppure della danza nemmeno l’ombra. Non resta a questo punto che cambiare drasticamente il punto di osservazione: quale performance per quale contesto? Quanta danza viene oggi creata appositamente per questo pubblico? Quanti artisti hanno interesse a trovare un linguaggio per entrare in relazione anche con queste comunità? I problemi culturali, economici e spaziali sono noti, ma alto è anche lo snobismo che impedisce all’artista di impegnarsi, con intento pedagogico ed educativo, nella diffusione del verbo, attraverso creazioni snelle e agili, adattabili anche a questi contesti, che riescano a penetrare nuovi luoghi e soprattutto nuove menti. Si resta invece in attesa di un cambiamento dall’alto che qui non può arrivare: un palcoscenico di 6m x 4m, rimarrà un palcoscenico di 6m x 4m.
Dove può risiedere allora la soluzione? È necessario un cambiamento di prospettiva che ruoti intorno al concetto di “rilevanza”. Occorre progettare un’offerta che abbia un valore per le persone e per i territori, e mettere in campo azioni volte a mostrare, a fare “toccare con mano”, a proporre esperienza di questo valore. Bisogna superare la lente dell’engagement con cui si cerca di attrarre numeri nei luoghi culturali, ma trovarne nuovi approcci orientati a mettere in relazione arte e persone; arrivare a scardinare formalismi culturali assodati (come lo stesso rapporto artista/spettatore) e ricercare nuove vie per una condivisione di esperienza più profonda. Ed è proprio da questi contesti minori e periferici, in cui alto è il contatto e il rapporto fra le persone, che sarebbe utile ri-partire: un campo di sperimentazione in cui instaurare un legame profondo con il contesto e con le identità, considerando che la danza contemporanea è per sua natura (com)partecipazione e presenza. È anche da qui che quest’arte performativa può ritrovare la sua rilevanza, contribuendo a promuovere l’esposizione e la partecipazione alla cultura come palestra di cittadinanza attiva e dispositivo di miglioramento del benessere individuale e collettivo.
Chiara Borghini, danzatrice, responsabile per le relazioni esterne e la programmazione per ArteMente, Centro di Alta Formazione per la Danza, e per la Compagnia Lost Movement, cofondatrice di Milano Dancing City, progetto di avvicinamento delle persone alla danza.