La climate opera ricreata su una spiaggia fittizia – Leone d’Oro alla Biennale di Venezia 2019 – raggiunge i sobborghi di Londra, inserendosi nella cornice del LIFT Festival, nota kermesse teatrale a vocazione internazionale, nata nel 1981 nella capitale inglese.
Immagina una spiaggia – ti ci ritrovi dentro, o meglio la osservi dall’alto: il sole cocente, la crema solare, i costumi da bagno scintillanti, i palmi delle mani e le gambe completamente sudati. Le membra stanche si distendono pigramente su un mosaico di asciugamani. Immagina lo strillo occasionale dei bambini, le risate, il rumore di un furgone dei gelati in lontananza. Il ritmo musicale delle onde sulla spuma del mare, un suono rilassante (in questa specifica spiaggia, non altrove). Lo scricchiolio dei sacchetti di plastica che volteggiano nell’aria, il loro silenzioso galleggiare in superficie, simile a quello di una medusa. Il rombo di un vulcano, o di un aereo, o forse di un motoscafo. Dopodiché, un coro di canti: canti quotidiani, canti di preoccupazione e noia, canti pieni di “quasi nulla”. E, al di sotto, il lento crepitio di una Terra esausta, che sussulta.
Così Lucia Pietroiusti, curatrice di Sun & Sea (Marina) nonché fondatrice del progetto General Ecology alle Serpentine di Londra, azione strategica e inter-organizzativa volta all’attuazione di principi ecologici grazie a specifici programmi per il pubblico delle Galleries. La nota performance, firmata da un team tutto al femminile di artiste lituane, raggiunge così la periferia londinese, albergando temporaneamente presso un pittoresco sobborgo a Sud del Tamigi in cui gli incidenti fra biciclette e monopattini diventano occasioni per insoliti abbordaggi.
È dunque dall’incontro tra la drammaturga Vaiva Grainytė, la visual artist e filmmaker Rugilė Barzdžiukaitė e la musicista Lina Lapelytė che germina questo strano concerto balneare, tenuto a battesimo tre anni fa a Venezia, ivi ottenendo l’agognata palma come Miglior partecipazione nazionale. Replicato nelle stagioni a seguire al BAM di New York, a Mosca, al MOCA di Los Angeles e all’Argentina di Roma, lo spettacolo – la cui tournée lambirà nei prossimi mesi anche Helsinki, Barcellona e Lisbona – ha fatto appunto tappa, dal 23 giugno al 10 luglio, al LIFT Festival d’Oltremanica, votato per quest’edizione al grido del “Back to Earth”.
I groundling vengono accolti al piano superiore dell’Albany e – armati di libretto – si dispongono circolarmente lungo la galleria superiore della sala, una sorta di balconata metallica che strizza l’occhio in chiave postmoderna alle playhouse elisabettiane di South Bank. Per quanto Sun & Sea non ne sia certo l’artefice, lo schema scenico a pianta centrale con visione dall’alto – qui adottato – risulta comunque assai suggestivo, a tratti ipnotico. La performance operistica, in rotazione continua con slot di fruizione della durata di circa 30 minuti, riproduce fin troppo didascalicamente il setting di una spiaggia affollata, con creme solari, costumi da bagno, palloni in plastica, asciugamani, sandwich e sdraio. La luce che si spande nell’ambiente è però, a ben guardare, tutt’altro che estiva: i numerosi fari incatenati alla graticcia si proiettano infatti a terra in maniera fredda, angosciosa, analitica, vivisezionando oggetti e corpi come se fossero disposti sopra un tavolo settorio.
A determinare un interessante contrasto con queste “nature vive” e iper-dettagliate (la cui più emblematica ipostasi risulta essere il cane che scorrazza attorno all’ensemble, descrivendo da parte sua un’imprevedibile linea drammaturgica) sono le litanie del quotidiano, intonate a turno – ora in assolo, ora in duetto, ora in coro – dagli attori-salmodianti: sprazzi di storie che scivolano tra il sinistro e il surreale, tra il mondano e il banale (nel senso di ordinary).
Gli spettatori-testimoni, frattanto, scrutano l’happening dall’alto, liberi di muoversi scegliendo un proprio focus d’attenzione. La spiaggia e i suoi inquilini, tuttavia, sembrano tradire la promessa di mesmerismo annunciata nel foglio di sala: difficile infatti non cogliere in Sun & Sea, pur giustamente acclamato dai grandi del «The Guardian» e del «New York Times» (e, in effetti, lavoro di cesello e cura delle cromie sono qui indiscutibili), un certo voyeurismo, che sfocia occasionalmente in una sorta di melodrammatico virtuosismo o comunque nell’incapacità di catturare a pieno l’osservatore, di istituire con lui un’interazione emotiva. Insomma, di immergerlo nella battigia.
Raffinato e amabilmente sarcastico è il testo, che – oltre a rinverdire la tradizione operistica, data dai più per morta – suona come un epigrammatico monito: se altrove stride, Sun & Sea riesce quindi perfettamente nell’intento di esplorare – a livello tattile e insieme sonoro – la relazione tra invasione antropica e pianeta, tra corpi e natura, configurandosi (in questo senso sì) come una performance ecologica.
Matteo Tamborrino
(ringrazio – per alcuni spunti di riflessione – Alice, Monica, Riccardo e Valentina, che hanno condiviso con me questa visione)