A partire dalla visione di Inferno della compagnia ALDES – recentemente insignito del Premio Ubu come Miglior spettacolo di danza e replicato tra Vercelli, Ovada e Asti nelle stagioni programmate dal Circuito teatrale del Piemonte – alcuni dance-writers appartenenti alla redazione itinerante che segue il progetto di Piemonte dal Vivo We Speak Dance ne hanno scritto, rielaborando le suggestioni offerte dal lavoro coreografico in forma ora critica ora narrativa.
Un lavoro solare, divertente, giocoso, ma che si chiama Inferno. E che non vede la sua genesi legata alle celebrazioni per il 700º anniversario della morte di Dante.
Roberto Castello
L’inferno nella cultura occidentale è il luogo dell’immaginario che più di ogni altro ha offerto spunti a predicatori, illustratori, pittori, scultori, narratori, registi e musicisti. È il luogo dell’espiazione delle colpe morali e materiali; quello in cui i malvagi vengono puniti e il bene trionfa sul male. È il luogo del sovvertimento e del caos, nella cui rappresentazione tutto può coesistere. Ma sarebbe poco credibile oggi una rappresentazione del male come regno di un diavolo sulfureo munito di coda, corna e forcone. L’inferno è qui. E assomiglia molto al Paradiso. È ciò che spinge a compiere ogni sforzo possibile per apparire in qualsiasi momento più bravi, più giusti, più belli, più forti, più attraenti, più responsabili, più umili, più intelligent, a competere per ottenere gratificazioni morali, sociali, economiche, affettive. Di qui l’idea di Inferno, una tragedia in forma di commedia – seducente, piacevole, coinvolgente, brillante e divertente – sull’invadenza dell’ego.
coreografia, regia, progetto video Roberto Castello
in collaborazione con Alessandra Moretti
danza Martina Auddino, Erica Bravini, Riccardo De Simone, Susannah Iheme, Michael Incarbone, Alessandra Moretti, Giselda Ranieri
musica Marco Zanotti in collaborazione con Andrea Taravelli
fender rhodes Paolo Pee Wee Durante
luci Leonardo Badalassi
costumi Desirée Costanzo
consulenza 3D Enrico Nencini
mixaggio audio Stefano Giannotti
mastering audio Jambona Lab
un ringraziamento a Mohammad Botto e Genito Molava per il prezioso contributo
una coproduzione ALDES, CCN de Nantes nel quadro di ‘accueil-studio’, sostenuto da Ministère de la Culture – DRAC des pays de la Loire,/Romaeuropa Festival/Théâtre des 13 vents CDN/ Centre Dramatique National Montpellier, Palcoscenico Danza – Fondazione TPE
con il sostegno della Rassegna RESISTERE E CREARE di Fondazione Luzzati Teatro della Tosse, ARTEFICI.ResidenzeCreativeFvg / ArtistiAssociati
e con il sostegno di MIC / Direzione Generale Spettacolo, REGIONE TOSCANA / Sistema Regionale dello Spettacolo
Immersioni magmatiche
di Michele Pecorino
Sotto i piedi frettolosi, il pavé si dispiega in tutta la sua immobilità. Lo sguardo, privo di alcun punto focale ben definito, è inframmezzato da attimi alla ricerca dei compagni di spedizione e da rapide occhiate al display del cellulare. I minuti scorrono inesorabili. Si vorrebbe esorcizzare il tempo per arrivare puntuali, ma nulla di tutto questo avviene. L’ingresso non è ancora visibile, manca ancora una svolta per poter scovare, in lontananza, l’ingresso del teatro. Gli ultimi passi sembrano farsi più leggeri. Ancora un balzo in avanti, attraverso la porta spalancata da una maschera, e si è immersi nel Foyer dalle tinte Carminie. Un sottile filo di voce ci avvisa che lo spettacolo è appena iniziato. Le luci in sala si sono spente da pochi istanti.
Per accedere in sala bisogna aspettare un pò, almeno l’arrivo di un momento drammatico più sostenuto che renda minima la distrazione che potrebbero causare quattro individui che nel buio cercano il proprio posto. Aspettando il momento adatto, però, è possibile sbirciare tra i pesanti velluti verdi posti a chiusura delle porte. L’occhio si fa strada tra le pieghe dello spesso tendaggio. Nel momento esatto che si trova la vista sul palco, un secco colpo, come quello di un timpano, rimbomba nella sala del teatro civico di Vercelli. Uno squarcio sonoro su una scena che si dipana lenta davanti a un fondale animato tridimensionalmente.
La scena si costruisce nel suo ritmo in un crescendo graduale. Ogni rintocco, sembra arricchirsi di qualcosa. A ogni colpo l’azione si carica di dinamismo, udibile nella tensione creata tra un effetto sonoro e l’altro e visibile nel legame tra i movimenti, inizialmente lenti. Finalmente arriva fortuito, il momento per poter prendere posto in sala, la poltrona è proprio accanto al corridoio. L’azione non richiede molto. Una volta seduto, l’attenzione ritorna magneticamente sul palco. Come un rito si entra in una dimensione altra. Il tempo non risponde più ai limiti del reale ma si dilata in maniera lenta, quasi impercettibile. Si accede all’interno delle viscere vorticose di questo Monstrum. Naturalmente da intendersi nel significato latino del termine quale portento.
La concezione del tempo assume ritmi cangianti, delle volte incespicanti, ma capaci di innescare una concezione temporale diversa da quella giornaliera. Il gesto, la mimica, il movimento, lo spazio e tanto altro ancora sono il magma che fuoriesce incandescente dalla coreografia di Castello. Uno spazio da poter esplorare in tutta la sua complessità spettacolare. I corpi, nel susseguirsi delle scene, sfuggono al controllo di sé stessi. La frenesia è tanta e lo spettatore non può che trovarsi inerme, attonito davanti al dipanarsi dell’evento. I corpi e i volti dei danzatori diventano per il pubblico figure demoniache ma nello stesso tempo rilucenti, dalle quali rifuggire incerti. Piume, paillettes, copricapi, oggetti vari e sorrisi ammiccanti rappresentano quelle protesi poste a diventare estensioni infernali, spaventose.
Si entra in contatto con la causticità del proprio essere. Proprio mentre si sta seduti in comode e accoglienti poltrone. Dapprima soltanto sospinti e in seguito trascinati verso il fondo attraverso un coinvolgimento violento. Ma non si ferma di certo a questo, la performance. Lo spettatore viene poi nuovamente scaraventato contro la sua seduta e lasciato solo, immerso nel suo senso di inadeguatezza, di fronte al sublime. Ognuno ha la visione di quel sé dannato che è in continua competizione con chi sta attorno. Roberto Castello porta in sala l’ossessione inconsapevole dell’uomo contemporaneo, febbricitante di voler primeggiare.
Ebbene nessun riferimento alle celebri bolgie dantesche è presente nell’opera. Nè tantomeno vuole essere una celebrazione per il settecentesimo anniversario della morte dell’Eccelso da Fiorenza. L’inferno per Castello è questa ineluttabile condizione a cui si è condannati. Le immagini in movimento, che scorrono sul fondale, entrano in stretto contrasto con l’azione che avviene innanzi. Un ulteriore elemento per lasciare inerme lo spettatore. Il linguaggio della danza non è l’unico ad essere utilizzato. Sarebbe opportuno parlare, in relazione a questa performance viva e tagliente, di un multi-linguaggio composito. Ogni singolo elemento si lega in modo caotico con il resto.
Quello che restituisce Roberto Castello, non vuole essere in alcun modo una condizione partecipativa, men che meno liberatoria. Quello a cui si assiste è uno spaccato radiografico della società contemporanea. Ogni scena, nell’evolversi dei minuti, trasuda sempre di più di schizofreniche ramificazioni. È proprio attraverso i corpi dei danzatori che si propaga questa frenesia. Proprio attraverso l’elemento del corpo che altro non è che il costrutto politico per eccellenza. I sei quadri si svelano nell’inevitabile scorrere di un tempo sconosciuto, avvolti in una sonorità graffiante e sbalorditiva.
Riaccesesi le luci i volti degli spettatori appaiono turbati. Gli applausi si levano, ma le domande che aleggiano nell’aria sono tante. I movimenti lenti e stanchi conducono i partecipanti fuori. In quell’inferno di cui questo lavoro è lastra radiografica.
Del Piacere ininterrotto
di Giuseppe Rabita
È il 29 novembre, tardo pomeriggio. Ci troviamo a Porta Nuova, un piccolo gruppo di studenti DAMS e della scuola Holden.
Destinazione Vercelli, Teatro Civico.
Perché sfidare le temperature che cominciano a diventare rigide, ingollare un panino alla svelta e schizzare in un teatro di provincia?
Il gioco vale la candela danno in prima regionale Inferno, ultimo lavoro di ALDES firmato Roberto Castello.
Arriviamo in teatro trafelati, qualche secondo dopo l’inizio. Scostando le tende della sala la scena è scarna: una collina, la luna, il tutto ha delle tinte molto oscure. Ogni tanto si sente un boato. Un danzatore arranca, cade, si contorce. È il primo quadro di un inferno che si confonde con il paradiso. Roberto Castello non traccia confini tra bene e male e il tormento lo cela dietro i riti del piacere: ci trascina in gallerie d’arte, dentro i vortici della disco music in cui sette danzatori si lanciano con virtuosismi e esibizionismi. Gli assoli, in cui l’ego del singolo viene pompato pur di superare gli altri ci raccontano un inferno individualista: l’inferno dell’ideologia del merito.
In scena sono sette: Martina Auddino, Erica Bravini, Riccardo De Simone, Susannah Iheme, Michael Incarbone, Alessandra Moretti, Giselda Ranieri sugli sfondi realizzati in video dallo stesso Roberto Castello, e sulle musiche trascinanti Marco Zanotti e Andrea Taravelli, si esibiscono in pezzi di teatrodanza, balli di gruppo, e perfino uno scatenato rockabilly, incarnando la società dello spettacolo: la società del presente.
E se assistiamo partecipi e divertiti ai riti del piacere della cultura contemporanea, vittime e carnefici della società della performance, i settanta minuti di Inferno di ALDES, tra paiette vestiti scintillanti, risate e balli tribali non fanno che suscitare una domanda: come uscirne?
Italo Calvino finisce le sue Città invisibili dicendo: L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Roberto Castello non sembra invece darci via di scampo: l’infero è quello che abitiamo tutti i giorni e forse non ci sono modi per non soffrirne.
Ma intanto divertiamoci!
Buio.
L’ultimo ultimo capodanno
di Martina Vianoni
Suoni lievi ma tribali / corvi / alberi che sono mani / adunche / pigiami, vestaglie, lustrini / eleganti per l’ultima notte / versi animali / ultimo capodanno da fine del mondo / aspettiamo la fine / sperando / un circo, una banda / che contenga un inizio / tamburi, piatti, sonagli / saltano anche gli alberi alla luce dell’alba / dei loro peccati / dei loro rimorsi / è il canto lirico del nostro epilogo / dove sfuma il tono dell’allegria / si accende l’acuto della devastazione / un frigo rosso vola nel cielo / del mondo è rimasta soltanto la luna / ciabatte rosa e un asciugamano in testa / dopo la doccia / zombie finiti qui per caso / le ciabatte calzano grandi / anche volessimo / non potremmo scappare / ma se ci prendiamo per mano / possiamo guardarci negli occhi / ci imbattiamo l’uno nell’altro / per caso / il nostro boa ha perso qualche piuma / pulcino superstite / sul palco / della fine del mondo.
Quanti giorni mancano /
alla fine? /
Li contiamo / stanghette nere / su muro di mattoni / siamo un paesaggio / desolato / mostra d’arte contemporanea / di noi stessi / musei / del nostro passato / possiamo commentarci / berci / brindarci / valutarci, prezzarci, acquistarci / e abbandonarci / è una bomba / o una festa di compleanno? / se soffiamo / si applaude / o si muore? / qualcuno muore, lontano / ma non siamo noi / questa volta / non siamo noi / ticchettio / o conto alla rovescia / fisiologico / dei nostri giorni / facce da spavento / eppure / sorrisi / ultimo party / ossessivo / rito antico / dell’estinzione / campane e salvezza / o dannazione / sabba dei vivi / precipizio dei morti / spogliarsi è il gesto / naturale / unico / velluto / che può salvarci / l’anima / e il culo.
Si accende una luce / è l’alba / noi corriamo / in cerchio / ci scappiamo / ci inseguiamo / le nostre dita / puntano altrove / siamo scimmie / morse dal demonio / e il demonio / in cerchio / lo cerchiamo / coda a sonagli / che ci racconta / l’imminenza / della fine / una danza / della pioggia / senza pioggia / i passi / piccoli / le distanze / lunghe / procediamo / a capo chino / dove andiamo / non è il noi / che lo decide / più tribale / di così / si muore / (o si vive) / infatti / siamo morti / vivi / adieu / e se la carne / ci vibra addosso / è il rimasuglio / di una vita / che rimane / in qualche mossa / ci scoviamo / umani / è soltanto / un accenno / un bagliore / transitorio / e stanotte / le statue / stanotte / se ne vanno / se potessero / i quadri / prenderebbero / fiato / per lasciare / la tela / lì / bianca / e scivolare / via / di lato / invece / c’è uno squalo / a mollo / nel pavimento / smorfie / nello specchio / lo specchio / sono / le altre facce / aftershow / dei nostri giorni/ showreel / di anime storte / lago dei cigni / in cui annegare / gran cabaret / sciarada / di sventura / nostra / autoindotta / e sepolcrale.
Inferno
è il posto
che fuori dalla finestra
gli alberi si spogliano
e tu
dentro la finestra
hai più freddo.
Quadri infernali
di Maria Rosaria Visone
Non il punto più basso, non il luogo più oscuro, non il mondo più torrido. Anche qui e adesso, l’inferno di Roberto Castello è alla luce del giorno: negli spazi che attraversiamo, nelle parole che ascoltiamo, negli sguardi che incrociamo. Spesso è visibile, altre volte celato.
Ci sono due modi per non soffrirlo: «il primo riesce facile a moltə: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio» (Italo Calvino).
#Quadro1
L’inferno è un un’isola blu, lontana, sperduta, arida.
Ci vivono creature strane, su quest’isola.
Si muovono, esplorano oltre la dimensione umana.
Vibrano e fanno vibrare rami rossi, spogli
generano stormi di uccelli neri
accendono fuochi d’artificio bianchi
suggeriscono forme di vita diverse.
Ma tutto è estremamente apocalittico, anche il dialogo.
Non c’è relazione, tutto ristagna e rallenta.
Destrutturato, anche il suono.
Di fuoco e fiamme, neanche l’ombra.
Eppure, l’inferno: una macchina ghiacciante.
#Quadro2
L’inferno siamo noi
quando vaghiamo senza meta.
L’inferno siamo noi
quando regaliamo energia all’inerzia.
L’inferno siamo noi
quando guardiamo ma non osserviamo.
quando afferriamo ma non teniamo.
L’inferno siamo noi
annoiatə
in ciabatte
in accappatoio
in pigiama
quando vorremmo agire
ma non agiamo
e usciamo di scena
perdendoci la vita.
#Quadro3
L’inferno è un qualsiasi luogo
affollato di vuotezza.
L’inferno è un qualsiasi luogo
governato da
classismo
superficialità
pochezza
inconsistenza
sull’orlo di un precipizio sociale
dove passeggiano bombe emotive
pronte a scoppiare
in un delirio danzante
che (tutto sommato) ci piace.
#Quadro4
L’inferno è qualsiasi atto di persuasione
nei confronti propri
nei confronti del mondo.
L’inferno è
dipingere
dipingersi
oltre i limiti della (propria) Natura.
L’inferno è
il contemporaneo avulso dai contesti
un pensiero non ragionato
una voce gelida.
#Quadro5
L’inferno è un caos brillante
un ribaltamento dell’ordine primordiale
L’inferno è
una danza bella, giocosa
fatta di
infinita energia
estrema vitalità
inesauribile gioia
inestimabile colore.
…
L’isola blu esiste ancora
è ancora freddo.
L’inferno precipita ovunque
il pubblico l’ha solo dimenticato.