I dance-writers della redazione itinerante di We Speak Dance hanno assistito presso il Teatro Civico di Tortona, lo scorso 27 novembre, alla prima regionale del dittico Ballade/Elegia, coreografie rispettivamente di Mauro Bigonzetti ed Enrico Morelli per la MM Contemporary Dance Company. Qui di seguito le loro restituzioni.
I brani, interpretati dai danzatori della MMCDC, accompagnano il pubblico in un viaggio tra generazioni diverse: Ballade di Bigonzetti è un ritratto a tutto tondo degli anni Ottanta, decennio che ha ormai perso i suoi confini temporali per diventare simbolo di un’epoca, mentre Elegia di Morelli racconta la nostra epoca attuale, periodo che mai come ora porta vertigine e smarrimento, ma anche la rinnovata speranza di un nuovo inizio. Ballade è un lavoro allestito senza artifici, che attinge da autori diversi protagonisti di quel periodo, dall’anarchica genialità di Frank Zappa alla poesia profonda di Leonard Cohen, sino all’estetica punk ed esistenziale dei CCCP. In Elegia si presenta una danza corale che ci immerge in un vortice di linee e traiettorie che si incontrano e si intrecciano, in un apparente caos primordiale fino al ritorno della quiete, che porta in sé la scelta di abbandonarsi alla speranza ritrovata, in vista di una nuova rinascita.
BALLADE
coreografia Mauro Bigonzetti
musiche CCCP – Fedeli alla linea, Leonard Cohen, Prince, Frank Zappa
light designer Carlo Cerri
costumi Silvia Califano
interpreti Emiliana Campo, Lorenzo Fiorito, Mauro Genovese, Matilde Gherardi, Fabiana Lonardo, Alice Ruspaggiari, Nicola Stasi, Giuseppe Villarosa
ELEGIA
coreografia Enrico Morelli
musiche Frédéric Chopin, Giuseppe Villarosa
danzatori Emiliana Campo, Lorenzo Fiorito, Mauro Genovese, Matilde Gherardi, Fabiana Lonardo, Alice Ruspaggiari, Nicola Stasi, Giuseppe Villarosa
produzione MM Contemporary Dance Company
Visione di un dittico
di Ludovica Fioravanti
Movimenti circolari di busti che ondeggiavano su solide gambe, corpi atletici che si chiamavano e poi si respingevano. Gli stessi movimenti accadevano dentro di me mentre venivo trascinata in una spirale di sensazioni che si delineava nota e conosciuta, ma che non mi piaceva. Con il passare dei minuti tutto si ricongiungeva, il cerchio si chiudeva, ma provavo allo stesso tempo familiarità e necessità di distaccarmi, riconoscimento e rifiuto. Avevamo intrapreso un viaggio nella società contemporanea, stavamo riflettendo sulle sue principali caratteristiche e sulle sue problematiche. Venivamo improvvisamente rigettati in quel luogo di frustrazione tipico dei momenti in cui ci accorgiamo di dinamiche malsane, ma che allo stesso tempo identifichiamo così facilmente perché nostre. Enrico Morelli, coreografo della MM Contemporary Dance Company, sapientemente giocava con queste sensazioni contrastanti e ci aveva spinti giù nel burrone della riflessione teatrale. Troppo tardi per evitarlo.
In duetti ed ensemble potentissime, ballerini di altissima preparazione tecnica si cercavano, si volevano, si trovavano, si prendevano, si intrecciavano, si lasciavano. E subito si scambiavano, si fiondavano da altri. Questa velocità d’azione, quel risolversi così rapido di un rapporto per iniziarne un altro era una rappresentazione così veritiera della nostra esperienza che quasi mi infastidiva. La mancanza di scelta ma il forte desiderio di intersecarsi, l’assenza di obiettivo però l’urgenza di andare fino in fondo: queste erano le sfaccettature delle relazioni e interazioni umane del contemporaneo, che lo spettacolo così sapientemente ci presentava. Eravamo noi oggi, sovraccaricati da stimoli e infinite possibilità che finiscono per farci scegliere tutto, per volare con superficialità da una cosa all’altra, da una relazione all’altra. Con movimenti ampi cerchiamo di andarci a prendere tutto, per poi contrarci e cambiare direzione.
In questo scorrere del tempo, gli umani spasmodici di afferrare tutto sono uguali, omologati, conformati a questo modo di agire e di pensare. E così, di fronte a noi, otto ballerini neutralizzati dagli stessi costumi e le stesse pettinature.
Musiche di Chopin affiancate a brani di musica elettronica sincopata del ballerino Villarosa non davano spazio alla parola. Perché non si può più comunicare, questa frenesia non lascia spazio al confronto. Siamo soli, smarriti, isolati, le nostre parole sono solo interne, intime. Come la voce che ogni tanto recitava le parole di Mariangela Gualtieri: sporca, slabbrata, imprecisa, a volte si ripeteva e non sempre si comprendeva, proprio come se stessimo parlando a noi stessi, quando sappiamo già cosa vogliamo dire e non c’è bisogno di farci capire.
Secondo tempo. Sipario. Corpi a terra, tutti nella stessa posizione prona e stessa direzione, ma diversi fra loro. Indossavano tutti costumi differenti che lasciavano intravedere le caratteristiche dei personaggi, c’erano corpi con forme disparate che non venivano celate. C’erano capelli corti e lunghi, chiome sciolte, libere, ricce, lisce, more, bionde e rosse. È bastato uno sguardo per realizzare che ciò che prima era una circostanza data non doveva essere per forza così, come un po’ la nostra realtà: ci vuole distacco e prospettiva per ricordarsi che non è sempre stato così, che le interazioni funzionavano diversamente, che in altre epoche i desideri cambiavano, come anche i problemi.
Corpi a terra. Erano vivi e avevano una voce. Si muovevano precisi e decisi, tutti in sincronia, carichi di energia e ogni tanto si sbattevano al suolo con gran fragore. Il tutto mentre si aggiungevano al canto di uno di loro che recitava le parole del capolavoro della band punk-rock anni ’80 CCCP: “Amami ancora, Fallo dolcemente, Un anno, un mese, un’ora, Perdutamente”. Era una comunità unita, che man mano sommava le voci e si raccoglieva per uno scopo più alto. La ricerca della propria identità collettiva passava attraverso ogni corpo, rinvigorito e motivato, con quella tipica intensità di chi si ribella. Con la convinzione, la decisione e la determinazione che si moltiplica perché condivisa, con la mentalità di chi pianta i piedi a terra e non china il capo, ma in sincronia con i compagni lotta per qualcosa di più grande. Eravamo negli anni ’80. Come scesi dalla macchina del tempo dell’intervallo, Mauro Bigonzetti ci faceva gli onori di casa, portando la sua esperienza di quel periodo a Reggio Emilia fra collettivi, lotte studentesche e una generazione alla ricerca di una rinascita collettiva.
La nuova energia dei ballerini era sensuale, libera, disinibita e non costretta. Entravamo con loro in una discoteca pomeridiana e ognuno aveva il proprio stile: c’era il ragazzo a petto nudo con il gilet, quello con la camicia sportiva, la ragazza con il vestito a fiori, quella con i leggings di pelle rosa e la fascetta in testa. L’entrata nel club dava modo di presentarsi, nella propria unicità, con il proprio movimento. Dalle tende di capelli ricci e folti entravano ad uno ad uno nel club, prendendosi il proprio momento di gloria, come già era accaduto negli assoli, dove ogni corpo trasmetteva un’anima diversa, unica, distinguibile, particolare. Ma l’arrivo in discoteca era per trovare il partner della serata, crearsi la propria coppia. Così, una volta entrati, i ballerini sembravano puntare la propria preda, era unica questa volta, forse scelta dall’alcol o dalla droga.
A tratti invece tutta l’energia veniva catturata da un filo giallo che attraversava la scena, teso. Il tempo si faceva più dilatato e stavano tutti cauti nel toccarlo perché finiva sempre per avvolgersi e intrappolare qualcuno, in modo lento e inarrestabile. E alla fine qualcun altro lo liberava. Forse allora anche nella società degli anni ‘80 cadevamo inesorabilmente nel tunnel, diverso da oggi, ma finivamo per rimanere intrappolati. E anche allora la salvezza stava nelle nostre mani.
Io non li ho vissuti gli anni Ottanta
di Zoe Guindani
Io non li ho vissuti gli anni Ottanta.
Nei gloriosi anni Ottanta io non ero neanche una vaga idea nella testa dei miei genitori,
allora sconosciuti.
Forse uno sbuffo di sole, qualche milione di galassie da qui.
Forse ancora terra.
Io non li ho vissuti gli anni Ottanta
ma so che esistettero.
So di qualcuno che li abitò, di qualcuno che vi si perse e so che hanno lasciato qualcosa nel
nocciolo profondo delle persone che li vissero: delle scie di malinconia.
Gli anni 80 del silenzio nella nebbia, anni 80 che nascondevano un’inquietudine, una voglia di
evasione, di smaterializzazione, di dileguamento.
Anni 80 col terrore dei corpi morti dell’Aids e delle centrali nucleari
Anni 80 di perdita e perdizione, ma
perdizione carica di vita.
Perché se è vero che certe epoche sono più vive di altre, questo è dovuto al senso di comunità
che le permea, come se a donare vita alla vita fosse la condivisione.
Una decina d’anni dopo un ragazzo morendo solo, su in Alaska, su un magico camioncino
abbandonato, avrebbe scritto così le sue ultime parole: la felicità è reale solo quando condivisa.
Se questo è vero, gli anni 80 furono anni felici.
Di una felicità agognante, anche disperata.
Che si correva a destra e a manca, ci si barricava in salotti polverosi, coi culi a terra nelle piazze
per sapere se Gianni era tornato dall’India e se aveva scoperto come aprire i chakra e come
scomporsi e come sentirsi altro e sé al contempo.
Che ci si ammucchiava nelle discoteche e si scacciava l’alito pesante dell’ educazione cattolica a
colpi di voguing, che si cacciava la paura della malattia, della morte e dell’osceno con il gioco
dei sussurri e degli ammiccamenti.
Anni 80 indicibili di tossici rantolanti sul pavimento,
che il tuo laccio emostatico era la mia corda d’impiccagione, che io non esisteva senza tu,
egli, noi…
Ed ancora e ancora come nei secoli, capire distrattamente, che l’unica vera via di fuga
potrebbe essere l’amore.
Ma l’amore si scopre a tentoni, la giovinezza è cieca.
È un burrone costante.
Un filo di rasoio sottile ed affilato.
Di là c’è una luce fredda e bianca. Un obitorio in cui si entra soli, la vaga sensazione che
nulla sia vero di quest’epoca dal vagito capitalista.
Spiriti smarriti,
i giochi non son più divertenti
lo yoyo si è rotto
i block notes rimangono bianchi,
e che importa allora dei mille libri letti, dei mille petali di margherita, che importa se
l’ultimo petalo era un m’ama se ora non respira più?
Ognuno cercava di essere libero a modo suo.
E tutti assieme si cercava una redenzione.
Nella comunione di corpi e anime, nel cercare di andare oltre al proprio corpo per
divenire Altro, per prendersene cura,
di me e anche di te
di me e anche di te.
Rimane il ricordo sensoriale di un tempo andato, un tempo a cui si può guardare con una
lieve malinconia, un tempo che aveva qualcosa a che vedere con la giovinezza e con il
coraggio di viverla a fondo, cercando i propri dei e le proprie regole.
Io non li ho vissuti gli anni Ottanta.
Nei gloriosi anni Ottanta io non ero neanche una vaga idea nella testa dei miei genitori,
allora sconosciuti.
Forse uno sbuffo di sole, qualche milione di galassie da qui.
Forse ancora terra.
Io non li ho vissuti gli anni Ottanta.
Ma so che esistettero,
perché qualcuno li ha ballati per me.
Ballade. La Malinconia delicata di Chopin e l’Emilia del punk nostrano
di Giuseppe Rabita
27 novembre. L’orologio del teatro civico di Tortona segna quasi le nove. Io e Matteo facciamo appena in tempo a sistemarci in piccionaia, e le luci si abbassano.
Inizia Ballade, lavoro di MM ccontemporary Dance Company.
Si tratta di un dittico: Elegia coreografato da Enrico Morelli e il pezzo eponimo, Ballade di Mauro Bigonzetti.
Con Elegia Morelli ci conduce in luoghi onirici intimistici, ammantati dalla musica delicata e malinconica del primo concerto per pianoforte di Chopin, della musica elettronica di Giuseppe Villarosa, e della voce materna e protettiva di Mariangela Gualtieri.
Sii dolce con me recita per tutto lo spettacolo Mariangela Gualtieri e questi corpi, con un movimento sempre molto pulito che fa dell’eleganza il suo tratto distintivo, ci conducono nei luoghi della solitudine, in cui siamo spogliati, fragili, scheletri stanchi.
E in quei luoghi i danzatori ci accarezzano con dolcezza.
questo essere corpi scelti
per l’incastro dei compagni
d’amore.
Gualtieri ripete i suoi versi, ed è come un balsamo. Elegia è luogo della solitudine sì, ma è il luogo anche dove la solitudine viene guarita. Luogo dove, il tocco dell’altro è cura è protezione. Morelli sembra dirci che l’amore è quello spazio dove ho la possibilità di stare in bilico senza paura di essere buttato giù.
Sipario.
Ballade invece è un lavoro dall’atmosfera tutta emilina, anzi forse Tondelliana. Da Tondelli abbiamo imparato che si può essere giovani e libertini anche in provincia. E Bigonzetti ci fa ballare con le musiche dei CCCP, Frank Zappa, e Nick Cave. Regalandoci un distillato degli anni ’80 queer dell’emilia paranoica, tra yo-yo sigarette, quaderni e giochi scanzonati.
Forse questo lavoro non riesce a toccare la profondità e il lirismo di Elegia, ma i pezzi di teatrodanza sono ugualmente efficaci e trascinanti che alla fine vorremmo cedere alla supplica di Giovanni Lindo Ferretti in Annarella sul finale:
lasciami qui lasciami stare lasciami così
non dire una parola che non sia d’amore
Restare lì, immobili nell’emilia delle balere,
giovani.
Per sempre giovani.
E innamorati.
ph. Nicola Stasi
Elegia delle stelle
di Alessandra Perinetto
Il cielo della notte è un dipinto incorniciato dalle chiome degli alberi che circondano la radura, nella tenebra le stelle si sono da poco accese. In questo angolo di mondo, l’unica nostra difesa è la coperta stesa per terra, su cui giaccio a pancia in su, lo sguardo rivolto alla volta celeste.
È la prima volta che tutto ciò succede. Siamo tenebre chiare in quella dolcemente oscura e pura della notte, che ci avvolge e ci ripara. Il silenzio ci isola dal mondo e ci avvicina agli astri.
Per la prima volta vedo, per davvero, su di noi le stelle che celano il volto luminoso, mentre la luna risplende su tutta la terra. E il mio cuore eremita, quando non aveva nessuno, ha compreso di aver trovato la sua, di stella: non si può certo affidare il proprio cuore alla prima che ci si trova davanti.
Per un attimo mi lascio distrarre, mi volto e vedo la persona distesa al mio fianco, sempre per la prima volta, ma all’improvviso i confini del suo volto nel buio si fanno sempre più sbiaditi e il suo viso si mischia con la Notte, la cosa più superba. Mentre guarda verso il cielo, scopro che il suo profilo non è più suo, i suoi occhi non sono più i suoi, sono i miei, si mischiano con la terra, con l’aria, con la Notte e diventano puro buio: energia impalpabile.
Distoglie lo sguardo dal cielo e piano si volta verso di me, sdraiata non vedo più la stessa persona di prima, al mio fianco c’è semplicemente il mio tu più esteso. I suoi occhi sono le stelle, il suo viso il buio della mezzanotte e dalla sua bocca non escono parole, ma il fresco sospiro del vento estivo.
Le stelle ci occhieggiano e ci riconoscono, sanno già tutto di noi, seppur piccolissimi nella storia. Le stelle hanno scritto la poesia che parla di noi e la reciteranno per tutta l’eternità, poesia che non a tutti è concesso udire.
Non c’è vicinanza, non c’è lontananza, c’è solo un unico, nostro tu mentre le stelle fulgide ci proteggono. Siamo due solitudini, due sbagli del mondo che hanno trovato tutte le risposte nel respiro dell’altro. Tutte le nostre domande si dissolvono nella tenebra, il dubbio non ha più significato o motivo di esistere, le parole si sfumano in suoni.
Gli occhi, le mani, i respiri, quell’abbraccio ora è solo riappropriarci di ciò che è nostro, che da sempre ci apparteneva, da quando le stelle sono nate e ci apparterrà finché le stelle non moriranno nell’oscurità. Il nostro viso si incontra dolcemente, le braccia ci avvolgono con tenerezza. Il freddo della notte non può nulla contro di noi. È l’ora in cui nel buio si sentono solo i nostri sospiri e la musica del cielo.
Non c’è più io, non c’è più tu.
La nostra mano tra i nostri capelli si muove come la lieve rugiada tra i fili d’erba. Le nostre labbra sono i confini della galassia finora conosciuta.
Ci maneggiamo con cura, con la cautela che si userebbe per un cristallo. Siamo qualcosa di nuovo, qualcosa di fragile. Le nostre carezze sono i baci della luce morbida nella tenebra.
Scivoliamo via e continuiamo in questo nostro gioco di equilibrio sul confine tra ciò che è tutto e ciò che è niente, tra l’immensità del cielo e la prosaica terra.
E così il nostro petto, che si alza e si abbassa al ritmo dei nostri respiri, si spalanca, dentro di noi palpita il nostro cuore: si è ormai trasformato nella luce di una nuova stella, incompresa, immutabile! E sia placido questo nostro esserci, la nostra nuova esistenza nel firmamento non è un peso, non ha peso. Quello che siamo ora non appartiene più alla terra, è fatto per stare nel cielo tra le stelle: ci innalziamo e siamo luce pura, la tenebra è solo un ricordo sbiadito.
Tra tutte le stelle che ci sono cadute vicino, ne abbiamo trovata una che brilla con la nostra luce, a noi più cara di ogni altra.
Quello che sta succedendo ci consola, consola il nostro errare eterno. Nel cielo della nostra storia, insieme, ogni nostro movimento è poesia, i nostri respiri sono un canto. La parola umana è ormai superflua per noi, nostro è il linguaggio degli astri.
E così voglio viver per sempre, o altrimenti, venir meno nella morte.
Pensieri sconnessi e ruote per Tortona, Ballade e Tondelli
di Mirco Spadaro
«Ci troviamo ogni sera al bar dell’Emily Sporting Club che è sotto al pallone pressostatico della piscina che così d’inverno diventa coperta mentre in estate rimane all’aperto in mezzo a tutti quei pratolini fioriti. Lì siamo sempre in sette otto a sbevazzare e dir cazzate e dare calcinculo al tempo che c’ha proprio solo bisogno d’esser così strapazzato per avanzare con un tantino appena di brio. Siamo sempre i soliti assatanati che ci conosciamo da quando eravamo bambinetti e già all’asilo ne avevamo pieni i coglioni gli uni degli altri. Insieme comunque abbiamo frequentato le scuole materne, le elementari e poi le medie, anche le superiori e dulcis in fine tutti nello stesso ateneo bolognese […], ma gli anni che passano qui legano, ma legano tanto che son venuti a Bologna anche loro, così per non dimenticarsi le nostre facce», scrive Pier Vittorio Tondelli in “Altri Libertini”, quel romanzo un po’ raccolta di racconti e un po’ manifesto d’inizio anni ’80 in cui, in Italia, si iniziava a parlare di una “giovane” narrativa opposta ad una “vecchia”: leggibilità massificata, arrabbiata, autoironica e disadattata schierata, neonata, contro quell’adulta e ormai stantia stagione di sperimentalismo neoavanguardistico che aveva impietrito una borghesia letteraria rea «d’inibire la stessa idea di narrazione». E così il Miro vuole scoparselo, l’Andrea, fotografo lombardo che s’appassiona di tutto e di niente, e non solo il Miro, ma anche l’Ela, l’Annacarla della soffitta di Piazza Bonifazio Asioli e un po’ tutto il bel paese lo vuole, che come un’Italia adolescente in ritardo mentre scopre le grandi rivoluzioni sociali e culturali dell’ultimo cinquantennio del Ventesimo secolo, da Kerouac a Salinger, da Nicholas Ray a Nanni Moretti, scopre anche il proprio retaggio stanco e le sue desuete idiosincrasie in un corpo nuovo e prolifico di giovani pregni di un nuovo linguaggio. Era tempo di una piccola rivoluzione e quella rivoluzione, quella gioventù, aveva dato il suo primo vagito, un orgasmo liberatorio che fu sentito come l’esplodere delle catene d’un dopoguerra letterario lentamente diventato aceto: era tempo, come avrebbero detto Tondelli e Quincey, di una literature of power. Quel libro, “Altri libertini”, l’ho letto, erano le medie ed a me sembrava d’aver trovato un’aspirina all’adolescenza: furore, contraddizione, sesso, amore, amicizia e corpo, così tanto corpo da poterci vedere l’anima dietro. E ci sto ripensando adesso, mentre torniamo dallo spettacolo; abbiamo ingranato la quinta e la notte si dipana, nuda d’avanti a noi; così tanto corpo da poter rivalutare pure quello, il corpo. Non andiamo veloci: riascoltiamo Amandoti, che guardando Ballade c’è entrata in testa, e parliamo poco o nulla, perché in fin dei conti è tardi e la strada è ancora bella lunga. Amami ancora, fallo dolcemente, un anno, un mese, un’ora, perdutamente! Amarti mi consola, mi da allegria, che vuoi farci è la vita, è la vita la mia! E poi i corpiche sbattono, che si riprendono, che si aprono e si consolano toccandosi e lasciandosi, ingarbugliandosi e liberandosi. Che Tondelli sia stato un seme, di Ballade, non è difficile ad immaginarsi; ce lo racconta lo stesso Bigonzetti, che sulla coreografia di Ballade c’ha messo la firma: come spiega in un’intervista rilasciata a Danza&Danza e riportata su una brochure all’ingresso del teatro civico: «quando arrivai ventiduenne a Regio Emilia nei primi anni Ottanta in città brulicava un mondo, un gusto, una singolare energia. E Tondelli era il faro di tutto questo […]»; il rifiuto polemico della normalità borghese, l’alcol, la droga, le ansie di evasione, i viaggi come segno dell’impossibilità di trovare il proprio punto d’approdo di Kerouacchiana memoria, quella suicida e terribile disperazione di vivere e quella volontà atlantidea, alle volte, di non rinunciarsi a morire. Tondelli termina sempre i suoi racconti con una chiusa amara, fa eccezione però “Altri libertini”, caratterizzato dal rientro degli eccessi: l’adolescenza non è l’anarchico termine categorico alla vita, l’amore non è la raglia palliativa di uno spleen inesauribile, un corpo sporco che non si può più toccare; c’è ancora da dare, ancora da amare, e il Miro può riprendersi dalle sue pene e correre in montagna con i suoi amici. Non riesco a non rivedere quest’immagine nelle ultime battute di questo spettacolo che dalla mia retina si estende a questo foglio; stringo ancora il volante, tengo ancora la penna e vedo ancora quei corpi, giovani e vecchi, che danzano parlando dell’amore ieri, oggi e domani. Stanno ancora amando; stiamo ancora amando.
Uno di noi s’è addormento sul sedile del passeggero, la testa appisolata dentro un sacchetto di patatine: la strada è ancora lunga. Prendendo mie le battute iniziali di Viaggio, racconto centrale di “d’Altri libertini”: notte raminga e fuggitiva lanciata veloce lungo le strade di Torino a spolmonare quel che ho dentro, notte solitaria e vagabonda a pensierare in auto verso la prateria, lasciare che le storie riempiano la testa che così poi si riposa.
Elegie Ballanda
di Martina Vianovi
Danza interna d’organi
lotta intestina
sott’acqua
fibrillare e movimento
in involucro
la vita dei tessuti
nostri
mentre siamo
respiriamo
esistiamo
e se c’è uno solo,
quello dev’essere il cuore.
Per forza
dev’essere
il cuore.
“Corpi scelti”
agiscono
mentre altri, in disparte —
La ripetizione è sangue in circolo
sussurri
suoni di fisiologie
nostre,
“non preoccuparti, è tutto ok.”
Corpo di uomo, senza movimento
prima donna
ora uomo
e questo di nuovo
dev’essere il cuore
quando cede il passo
alla fatica.
Si passano il testimone, gli organi
gara ad essere pompa
ora defilati
ora al centro
ora in schiera
capobanda
ora in guerra.
Sempre
solo
in guerra.
Si accendono le stelle
fondale nero traforato
sono i pori, eccoli
è da lì che entra la luce
fuori, lei
dentro,
noi.
“Senza te io sono lontana
da cosa non so
ma lontana
sono, lontana.”