L’INVITO DELLA LUCE
Eugenia Coscarella
Note:
Residenza artistica Tabula Rasa di Doriana Crema
I frammenti di testo sono estratti da: JOHN BERGER, E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto, Milano, Bruno Mondadori, 2008.
Eugenia Coscarella
Note:
Residenza artistica Tabula Rasa di Doriana Crema
I frammenti di testo sono estratti da: JOHN BERGER, E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto, Milano, Bruno Mondadori, 2008.
With references to competitive sports such as wrestling and gymnastics, the dancers studied the physicality of rising and falling, the motion of recycling energy and motivation. Here, the perpetual sunset becomes a metaphor that refers to Western paradigm of self-performance that keeps its human capital invested in an internalized competition with oneself, circulating between pleasure and dread, infinitely searching for opportunities that would lift the feeling of unaccomplishment. There is an instillment of a terror of falling, of the darkness, of the unknown: what comes after is an unfamiliar and obscure territory.
The documentation performs a disentanglement of the loop by speculating an alternative scenario of the fall. This is not an explicit operation on the anxieties society has infected falling with, but rather a study on the physical possibilities and open-ended continuation of falling by starting from the document as a bodied and fleshy entity that during the following experiment goes through a series of declines: actions that transform it’s chemical consistency to a point of no return. By setting up the conditions of no turning back, the path unearths and examines possible ways forward, rethinking falling not as a motion down but as an opening of other territories.
The de-disciplined potion-making looks at falling as an alchemic strategy, a transformative action which re-imagines falling as a condition without rising, without an end, and not as a motion down but forward.
Photo performance by Kadri Sirel, subtitles captured from conversations in the studio between Salvo and the performers.
Inspired by Fabritia D’Intino’s residency with CANCAN and the shared training workshop based on the work, these traces collected from the studio build upon the Cancan as an entrapping system that perpetuates sexualizing dancers’ bodies, ending in a pessimistic loop that numbs the discoursive capacity of deconstruction to develop possible alternative scenarios. Fabritia’s process introduced the question, how long does re-organizing the same alphabet satisfy one’s illusion of freedom? How does one exit the Cancan?
Here are some balloons I picked up from the studio that help me wonder just that…
By Kadri Sirel
Da dove deriva la scelta di servirsi di un vasto immaginario vegetale? Quale funzione svolgono, in altri termini, le piante in questa vostra creazione?
FLAVIA: La ricerca prende avvio proprio da una grande fascinazione per il mondo vegetale; un’attrazione sostenuta da letture approfondite, senza tuttavia una vera e propria competenza scientifica in materia. Il nostro interesse precipuo riguarda la creazione di una relazione a tre, tra corpo umano, elemento vegetale e dimensione tecnologica (vale a dire, tutto l’apparato che usa Cecilia per produrre suono a partire dagli impulsi elettrici sprigionati dalle piante). Le piante, dunque, giocano un ruolo di fondamentale importanza. Il tentativo è “stare” all’interno di un meccanismo di relazioni circolari, anziché piramidali: non vi è mai, insomma, un elemento che prevalga, sebbene – a seconda dei momenti – l’uno o l’altro sembri imporsi. Uno dei meccanismi principali del lavoro è l’utilizzo di un dispositivo, o meglio di un circuito arduino di biodata sonification chiamato Midi Sprout, che grazie a dei sensori apposti sulle foglie (simili a quelli utilizzati negli elettrocardiogrammi) recepisce il passaggio di corrente. La “pianta madre” è collegata alle altre due attraverso un filo di rame, che sbuca dal terreno della prima, compie un giro attorno alla seconda e si immerge infine nelle radici dell’ultima: questo percorso amplifica la trasduzione del passaggio di corrente, potenziando quello già esistente per natura. A livello coreografico, cerco di attivare una relazione anche con il corpo. Un corpo – ça va sans dire – il più possibile aperto, rilassato, fedele a quanto percepisco e sento nel preciso istante. Un corpo, insomma, che sta in ascolto, principalmente del sé. All’inizio della ricerca entravo in questo setting rimanendo molto fuori da me stessa, proiettandomi nell’ascolto del campo elettrico esterno. Pian piano però, lavorando su questo aspetto, mi è parso di capire che abbia ben più senso ascoltarsi, per potersi poi virtuosamente aprire alla relazione, di qualunque tipo essa sia. Il dialogo si sviluppa attraverso degli stati e dei gradi di pratica: il primo è il tentativo di aprire il corpo in una situazione di rilascio quasi meditativo. Dopodiché Cecilia si posiziona dietro il mixer e parte la musica. Io, nel frattempo, inizio a esplorare lo spazio, istituendo un dialogo che ha più a che vedere con la mimesi, intesa non tanto come imitazione della forma delle piante (operazione che risulterebbe, in effetti, piuttosto banale), bensì in quanto approccio, riflesso umano autentico. Capita spesso, infatti, pur non conoscendo una persona, di prenderne – quasi istintivamente – le forme, il modo di esprimersi, di gesticolare, di muoversi. Con il tempo ho iniziato ad accettare questa dinamica, sebbene la volessi eliminare in principio perché mi sembrava eccessiva, didascalica. Invece ora la sto assorbendo. Tornando ai momenti dello spettacolo, poco per volta entra – in maniera sempre più preponderante – il suono e quindi anche l’elemento elettrico prodotto dalle piante. Io continuo, attraverso il corpo, a rimanere in ascolto di tutto ciò che avviene a livello sonoro, visivo e fisico dentro di me. E si crea così un pattern, una sorta di 8 che descrivo danzando attorno alle piante. Ed è quello il vero momento di dialogo: lì resto nella mia condizione di movimento, ora spontanea, ora volitiva, ora morbida. Una duplice condizione di ricezione ed emissione.
Nella scheda artistica sono chiarite puntualmente le piante da utilizzare, che assurgono al rango di protagoniste nei crediti dello spettacolo.
FLAVIA: Esatto. Le piante richieste sono appunto queste [le indica sulla scena]. Poi, naturalmente, ogni volta presentano forme diverse, quindi muta anche la relazione che si va instaurare tra me e loro. A destra vedete la Monstera Deliciosa, che appartiene alla famiglia dei rododendri, le prime piante a essere utilizzate in esperimenti con sensori già dagli anni Cinquanta-Sessanta (erano quelli per brevettare le macchine della verità). Questo gruppo vegetale risponde molto bene agli stimoli perché possiede un fogliame molto largo; pertanto si osserva un copioso passaggio di energia, di elettricità, non troppo compressa come invece avviene nelle piante grasse. Sono insomma degli ottimi trasduttori. Per le altre due – il Ficus Lyrata e l’Eugenia Myrtifolia – il discorso è pressoché identico: anch’esse mostrano foglie abbondanti e assai resistenti. Sono tutte e tre – peraltro – piante da interno, abituate a quegli stress necessariamente subiti per via del trasferimento da un luogo all’altro. Sono tenaci, forti. La scelta dipende anche da ragioni di ordine estetico, legate al mercato delle piante. Il Ficus, l’Eugenia e la Monstera sono infatti piuttosto comuni da trovare in uffici e negozi, essendo piante d’arredo, molto gradevoli alla vista. Mi stuzzicava quindi l’idea di utilizzarle per sottolineare l’enorme carica vitale, spesso data per scontata, di soggetti comuni, visibili ovunque.
Passando invece al corpo sonoro?
CECILIA: Nel primo segmento dell’opera-installazione, il mio ruolo è mettere in risalto, in evidenza, attraverso il suono quell’energia che si genera nello spazio. Inizialmente è un piccolissimo microfono, una capsula, a realizzare tale obiettivo: lo muovo io un po’ nell’aria, mettendolo in risonanza. Attraverso degli altoparlanti si crea così un feedback, modulato all’occorrenza dal vivo. Questo già inizia a dar vita a una sorta di tensione. La pianta reagisce frattanto al suono, che la attiva, la mette in moto. Così come mette in moto anche Flavia, la quale comincia nell’ecosistema delimitato dai vasi. In origine avevamo assegnato dei suoni predeterminati a ciascuna pianta. Abbiamo poi virato su altre soluzioni: di fatto, diamo alla pianta la possibilità di scegliere, a seconda degli impulsi che emana, tra specifiche parti di file, che non sono altro che le registrazioni dal vivo realizzate sulla scena. In poche parole, è la pianta che “suona le parti che vuole suonare”. Ci sono poi passaggi in cui Flavia rivolge alla pianta delle parole tramite il microfono e la pianta – specularmente – decide come rileggerle. Nel finale, invece, il corpus vegetale suona un synth producendo una sonorità più violenta, in un crescendo, in una climax, in un’esplosione di elettricità.
Se ho ben capito, quindi, attraverso i sensori voi leggete gli impulsi elettrici che la pianta possiede e che vengono anche provocati da stimolazioni sonore o interazioni con il tuo corpo, giusto? Si crea così un dialogo, amplificato dai tre piani simultanei della composizione.
FLAVIA: Sì, a fungere da collante è il campo elettrico. Nella pianta, di suo, già scorre un’energia vitale, così come accade all’interno di ciascun corpo umano. Chiaramente in uno spazio fisico in cui si trovino delle persone – a maggior ragione se queste si muovono – si altera la carica energetica ed elettrica dell’ambiente, insieme a quella della pianta stessa. Quest’ultima diventa così un trasduttore, un trasmettitore, di quanto percepisco. Tanto più in un teatro, dove si attivano luci e molteplici fonti di calore.
Di conseguenza, a ogni “replica” lo spettacolo è diverso.
CECILIA: Esatto. Infatti la sfida grande di questo lavoro è il restare il più possibile sincere alla relazione che si instaura nel qui e nell’ora. Le piante infatti, da parte loro, rispondono in maniera sempre autentica e quindi imprevedibile.
Intervista a cura di Matteo Tamborrino
OMBELICHI TENUI Ballata per due corpi nell’aldilà
di e con Filippo Porro e Simone Zambelli
suono Isacco Venturini
luci Emanuele Cavazzana
scene e costumi Silvia Dezulian
consulenza scientifica Cristina Vargas, Marina Sozzi
consulenza drammaturgica Gaia Clotilde Chernetich
produzione AZIONI fuori POSTO
co-produzione C&C Company, Balletto Civile
con il sostegno di Komm Tanz_Passo Nord, progetto residenze Compagnia
Abbondanza/Bertoni, Lavanderia a Vapore – Centro di Residenza per la Danza
progetto vincitore del bando AiR 2021 – Artisti in Residenza / Lavanderia a Vapore
ore 18.00
Spettacolo
OMBELICHI TENUI
Ballata per due corpi nell’aldilà
C’era una volta un sassolino bianco, che attendeva sulla soglia di un teatro.
Insieme a lui tanti altri sassolini bianchi, custoditi due guardiani, che attendevano noi, che attendevano me.
Al mio ingresso, uno di loro dice:
“Ciao,
sono un sassolino bianco,
prendimi e portami con te, ti accompagnerò nella domanda.”
“Non avere fretta, prendi il tuo tempo per rispondere:
Hai paura della morte?
Hai mai toccato un corpo morto?
Hai mai desiderato morire?”
Inizio a girare tra le domande, a depositare sassolini, a depositare i miei sì, a depositare i miei no, insieme a qualche incertezza.
Qui, tra gli scricchiolii, sulla terra, la parola ‘morte’ prende forma, senza perifrasi o sinonimi. Esattamente così com’è, la sua domanda affonda nella carne e si fa strada nella memoria di ciascuno, nella mia.
La sua presenza emerge prepotentemente nello spazio, emerge come materia tangibile e in quella presenza, ci ricorda di essere la grande assente del nostro pensare, dire e agire quotidiano.
Eppure la tocchiamo ogni giorno.
Ogni volta che finisce qualcosa, noi la tocchiamo. Un’amicizia, un amore, un giorno.
Quando andiamo a dormire, quando ci risvegliamo, quando nasciamo. Ogni volta che
varchiamo il confine di qualcosa: buio, luce; visibile, invisibile; silenzio, parola.
La troviamo in ogni soglia.
E allora cosa rimane? Aldilà della rabbia, del dolore, della paura che suscita, cosa rimane?
Il passaggio.
Esattamente quello che accade in scena. Due corpi si incontrano, si accompagnano, si riconoscono, si perdono l’uno nell’altro, si separano. Vivono il passaggio.
Ma questa sera, caro sassolino, dai bambini seduti in platea, tutti impariamo qualcosa in più. Ci svelano il loro potere magico per nobilitare il passaggio: il sorriso.
Si può sorridere alla morte?
Sono loro a regalarci questa domanda.
Sì, si può creare quel piccolo spazio sul volto, lasciar fluire il respiro e in un piccolo suono dire: io ti accolgo.
Aldilà della rabbia, del dolore e della paura che susciti, morte, io ti accolgo.
Nel passaggio,
non voglio imparare a non aver paura, voglio imparare a tremare.
Non voglio imparare a tacere, voglio assaporare il silenzio da cui ogni parola vera nasce.
Non voglio imparare a non arrabbiarmi, voglio sentire il fuoco, circondarlo di trasparenza che
illumini quello che gli altri mi stanno facendo e quello che posso fare io.
Non voglio accettare, voglio accogliere e rispondere [1].
“Posso sedermi vicino a te?”
Caro sassolino, non è la paura a domandare, ma Amira, che salendo le gradinate della platea, mi raggiunge, chiedendomi se può guardare lo spettacolo vicina a me.
Mentre le dico sì sassolino, penso: che fortuna vedere uno spettacolo sulla morte vicino a una bambina.
Sì sassolino, Amira ha 11 anni e la mia storia prosegue così:
C’era una volta Amira e insieme ci siamo incontrate, riconosciute e accompagnate in questa visione.
Cosa rimane?
Il privilegio di affiancare un corpo ingenuus, sentirlo sussultare sulla seduta della platea, vederlo affacciarsi oltre le teste della fila avanti, per avvicinarsi il più possibile a ciò che sta accadendo. Ascoltarlo mentre sussurra domande, sentirlo ridere di un inciampo, di un corpo che cade, anche se quell’inciampo e quella caduta parlano di morte.
Cosa rimane?
Lo sguardo prezioso di una voce bianca, capace di cogliere con semplicità, aldilà del mi piace, non mi piace, tutte le profondità, i simboli di un’orazione danzata, di un rito laico di passaggio, per salutare qualcuno o qualcosa che se n’è andato. Un’amicizia, un amore o una vita.
Ciao sassolino,
grazie di averci accompagnato
grazie di averci fatto incontrare.
Ti salutiamo con una nostra poesia.
Abbi sempre cura dello spazio della domanda.
[1] C.L. Candiani, Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione, Einaudi, Torino 2018, p. 75