Il 25 maggio scorso, a Genova presso Casa Paganini – InfoMus, il progetto Danzarte è stato protagonista del laboratorio organizzato da Compagnia di San Paolo nell’ambito del Cultural Wellbeing Lab, per favorire nel nord-ovest lo sviluppo di nuove competenze e progettualità partendo dalla consapevolezza del profondo impatto della cultura sul benessere di persone e comunità.
Si può “danzare” un’opera d’arte? È possibile percepire un quadro con sensi diversi dalla vista? Può la visione di un’opera d’arte essere cura per il corpo? L’approccio applicato da noi coreografe a sostegno del progetto DanzArte ha l’obiettivo di accompagnare ogni individuo in un’esperienza estetica capace di integrare risorse emotive e cognitive. Alla base della nostra proposta risiede la concezione di corpo inteso sia come esperienza sensoriale sia come dimensione conoscitiva interiore. Questo orientamento e il metodo utilizzato sono frutto di una pluriennale esperienza in ambito somatico, coreutico e terapeutico, sperimentato in diversi contesti: formazione e produzione con danzatori professionisti e amatori, nell’ambiente scolastico a partire dagli 8 anni e con varie declinazioni della fragilità.
Ispirandosi alle scoperte in ambito neuroscientifico[1] che offrono nuove prospettive sia in ambito performativo che in quello pedagogico, il nostro approccio, utilizzato all’interno del progetto DanzArte, fa riferimento ai forti legami tra l’ambito dell’apprendimento per imitazione motoria e l’ambito della neuroestetica che ha come oggetto di studio le basi biologiche dell’esperienza estetica [2]. Considerando la persona come fine cui tendere e il processo come mezzo per raggiungere l’interezza dell’individuo, proponiamo lo sviluppo di azioni che radichino in una pedagogia somatico-immaginale, capace di portare i fruitori a sperimentare una pratica completa e profonda, orientata a una traduzione cinestetica delle opere d’arte ponendo in dialogo arti visive e movimento/danza.
Il nostro orientamento si sviluppa in una narrazione semplice ma approfondita dal punto di vista tecnico e linguistico con un utilizzo sapiente della parola, in grado di orientare alla sensorialità e alla fluidità motoria, qualità fondamentale per garantire un’esperienza di benessere. Attraverso alcune semplici pratiche e l’ascolto delle connessioni suscitate dalla visione, si può arrivare a modulare la propriocezione corporea, le risposte gestuali ed emotive, alimentando il complesso processo di costruzione del proprio sé.
Pertanto, in riferimento al progetto DanzArte, abbiamo tradotto graficamente le linee di movimento ispirate alle opere di L. Cambiaso originando un collegamento empatico e formale [3]. Successivamente abbiamo organizzato partiture gestuali a loro ispirate, validate dai medici del dipartimento di cure geriatriche dell’Ospedale Galliera di Genova, affinché potessero rispondere a diversi livelli di complessità, tenendo in considerazione alcuni elementi tecnici: innanzitutto, allineamento posturale e organizzazione nello spazio, con una particolare attenzione alle strutture osteo-articolari e alla coordinazione motoria.
In conclusione, abbiamo cercato di riportare la parola “estetica” alla sua origine, aisthesis, alla percezione della bellezza attraverso i sensi, la cui radice rimanda alla nozione di “accogliere” e “inspirare”: quel trattenere il fiato dalla meraviglia che è risposta primaria [4]. Collaborare al progetto DanzArte ha significato per noi porre nuovamente al centro il senso di estasi e rivelazione, guardando le cose nella loro unicità sensibile e facendo riemergere in ogni corpo la possibilità stessa di rivelarla giacché la Bellezza è una necessità ontologica, che fonda il mondo nella sua molteplice particolarità sensibile.
Francesca Cola e Debora Giordi, coreografe
NOTE [1] V. Gallese, L. Fadiga, L. Fogassi, G. Rizzolatti, Action Recognition in the Premotor Cortex, «Brain», II, 119 (1996), pp. 593-609; G. Rizzolatti, L. Fadiga, V. Gallese, L. Fogassi, Premotor Cortex and the Recognition of Motor Actions, «Cognitive Brain Research», II, 3 (1996), pp. 131-141; D. Freedberg, V. Gallese, Motion, Emotion and Empathy in Aesthetic Experience, «Trends in Cognitive Sciences», V, 11 (2007), pp. 197-203. [2] B. Calvo-Merino, D.E. Glaser, J. Grèzes, R.E. Passingham, P. Haggard, Action observation and acquired motor skills: an FMRI study with expert dancers, «Cereb Cortex», XV, 8 (2005), pp. 1243-1249. [3] S. Zeki, Inner Vision. An Exploration of Art and the Brain, Oxford University Press, Oxford-New York 1999, p. 126. [4] J. Hillman, A Blue Fire, Adelphi, Milano, 1996, p. 440.
Proviamo a spiegarlo attraverso le parole di Franco Purini, architetto e docente di fama internazionale (classe 1941) che – fra le altre – nel 1979 collaborò con l’allora assessore alla cultura del Comune di Roma, Renato Nicolini, per la realizzazione di Parco Centrale, effimero progetto di “meraviglioso urbano”, finalizzato alla teatralizzazione della Città Eterna, grazie a una serie di palcoscenici diffusi (ciascuno dei quali dedicato a una disciplina artistica: il teatro, la musica dal vivo, il ballo e la TV), disseminati al di là delle mura aureliane.
Con l’espressione spazio pubblico si intende in prima istanza quell’insieme di strade, piazze, piazzali, slarghi, parchi, giardini, parcheggi che separano edifici o gruppi di edifici nel momento stesso in cui li mettono in relazione tra di loro. Si tratta di un sistema di vuoti urbani di diverse forme e di dimensioni anch’esse variabili che rappresentano, per così dire, il negativo del costruito. Individuato per la prima volta in termini espliciti da G.B. Nolli nella sua Nuova pianta di Roma pubblicata nel 1748, questo sistema, la cui progettazione e la cui cura sono affidate di solito all’amministrazione della città, si traduce nella struttura urbana in sequenze prospettiche che conferiscono un senso preciso e conseguente alla presenza dei manufatti. […] Considerando lo s. p. da un altro punto di vista, vale a dire non analizzandone l’essenza fisica, ma i suoi usi e i suoi significati, esso si rivela come il complesso degli ambienti urbani esterni il cui accesso è non solo aperto a tutti, ma riveste un carattere particolare, riguardante la qualità del modo con il quale questa accessibilità si dà. Con l’espressione spazio pubblico si intende in questa accezione l’esito della compresenza di più categorie tese ad assicurare una specifica tonalità ideale, iconica e comportamentale alla fruizione di strade e di piazze. […] Oltre a questa appropriazione interviene poi la capacità di rappresentare, tramite adeguate sistemazioni architettoniche degli invasi urbani […], la comunità urbana nei valori che la istituiscono come tale. Tutto ciò in una condizione di lunga durata, nel senso che questo processo rappresentativo si definisce attraverso l’iterazione nel corso di decenni, e molte volte di secoli, di particolari momenti associativi che riguardano la vita religiosa, civile, politica.
Franco Purini, ad vocem“spazio pubblico” in «Enciclopedia Italiana – Treccani»
E nelle arti performative (nel teatro, nella danza…)?
Il teatro è una manifestazione potente e radicale del rapporto fra fatto creativo e società. Nell’antica Grecia, il teatro era il luogo di congiunzione tra la speculazione filosofica, praticata lungo la via del Peripatos ateniese, e la maestosità dell’Acropoli con i templi dedicati agli dei. Anche geograficamente, il teatro di Dioniso, il primo teatro della Grecia antica, è situato ai piedi del Partenone, dedicato a Giove e poi successivamente ad Atena, figlia di Giove partorita dalla testa del padre, anche conosciuta come dea della sapienza. La sapienza dunque, come vetta di un percorso che parte dal teatro, da una esperienza collettiva, passando per la catarsi, la purificazione attraverso la quale la comunità prende consapevolezza di se stessa vedendo rappresentati tutti gli aspetti più oscuri e indicibili dell’esistenza. Le diverse forme di questo passaggio sono, nella civiltà occidentale, la speculazione filosofica e il linguaggio poetico attraverso i quali prende forma l’ethos di un popolo, la sua identità. Tramite l’esperienza teatrale la moltitudine degli spettatori si fa corpo collettivo che vibra all’unisono e accorpa, appunto, la dimensione affettiva ed emotiva dei valori sociali condivisi. Nella società contemporanea interconnessa e digitale il teatro mantiene ancora la sua funzione grazie alla sua qualità di arte dinamica che riproduce questa esperienza del qui ed ora. Ancora di più, nell’era del consolidamento dell’uso del digitale nella vita quotidiana, il teatro può vivere una stagione di rinnovata vitalità ed estremo interesse in termini sociali.
Offre quello spazio di creatività che l’individuo contemporaneo non può più distribuire in molte piccole azioni del quotidiano e dell’occupazione stretta nelle rigidità del digitale; lo spettatore è sempre più compartecipe della costruzione del significato collettivo dell’evento e al tempo stesso ne viene trasformato attraverso la relazione diretta, già elemento fondamentale che contraddistingue il teatro dalle altre arti. Secondo Ferrarotti l’arte e la società si incontrano in un complesso abbraccio e a seconda della stretta, questo può diventare un abbraccio mortale o salvifico (Ferrarotti 2007). La ricaduta dell’azione teatrale in termini sociali può quindi essere declinata in vari aspetti: teatro come spazio pubblico, dunque riappropriazione politica di una presenza sociale; teatro come evento (Badiou 2015); teatro e benessere collettivo; teatro come strumento pedagogico e di socializzazione ai comportamenti pro-sociali per le nuove generazioni; luogo creativo di espressione e di sviluppo dell’immaginario; teatro poetico di recupero del simbolico; teatro come centro culturale sia per i piccoli che i grandi centri urbani, cuore pulsante di una comunità. Il teatro è tutti questi aspetti in quanto affermazione e recupero dello spazio pubblico, luogo di formazione del corpo sociale e al tempo stesso luogo di riflessione personale, sempre in relazione all’altro da sé.
Così Ilaria Riccioni – ricercatrice confermata e professoressa aggregata in Sociologia generale presso la Libera Università di Bolzano – nella call for papers del Congresso Internazionale “Teatro e spazio pubblico” (9-11 settembre 2021), i cui Atti, dal titoloTeatri e sfera pubblica nella società globalizzata e digitalizzata, hanno trovato recente pubblicazione. La riflessione convegnistica traeva spunto da una pregressa ricerca sociologica – confluita nel volume Teatro e società: il caso dello Stabile di Bolzano (Carocci 2021) – svolta dalla studiosa in seno al Teatro Stabile di Bolzano (tra il 2018 e il 2020), al fine di approfondirne la storia, il peculiare rapporto con il pubblico e – in ultima istanza – l’intenso dialogo intrattenuto con la politica locale e con le diversità culturali del territorio. All’interno della collettanea, edita per i tipi della Guerini & Associati, anche un contributo su Lavanderia a Vapore, a firma di Matteo Tamborrino (dottorando in Storia delle arti e dello spettacolo presso le Università di Pisa, Firenze e Siena e cultore della materia in Discipline dello spettacolo all’Università di Torino): nelle pagine del saggio, la Casa della Danza di Collegno – la cui storia viene ripercorsa ab origine, dalle sue radici “manicomiali” – assurge a paradigmatica esperienza di relazione fra spazio e comunità, tramite affondi su specifiche progettualità.
Ricerche in progress…
Iniziativa particolarmente virtuosa, che merita di essere segnalata in questa sede, è Arte e spazio pubblico, un’esperienza di ricerca, formazione e disseminazione nata dall’azione congiunta della Direzione generale Creatività Contemporaneadel Ministero della Cultura e della Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali. Una riflessione attorno alle dinamiche di interazione tra arte e spazio pubblico (dal secondo dopoguerra ad oggi) su scala nazionale, mossa dalla volontà di sondare le interferenze, ora armoniche ora invece conflittuali, tra elaborazioni teoriche e pratiche progettuali. Il progetto, ideato nel 2021 e attualmente in via di sviluppo (si concluderà infatti – a seguito delle giornate di studio tenutesi a febbraio scorso – con la pubblicazione degli Atti), si è articolato in momenti consecutivi e complementari di studio e ricerca. Per ulteriori info sul programma e sui suoi risultati, si rimanda alla piattaforma dedicata: fondazionescuolapatrimonio.it/en/research/arte-e-spazio-pubblico.
Fulcro del progetto Swans Never Die, il concetto di re-enactment non appare tuttavia di facile accesso. Per provare a chiarirne i contorni, un collage di “definizioni” tratte da esperienze dirette di pratica coreografica e da riflessioni teoriche a firma di rinomati studiosi.
Fondamentale nei più recenti sviluppi dei PerformanceandVisualStudies, il termine re-enactment – baricentro concettuale del progetto Swans Never Die – merita un doveroso chiarimento. È per prima la coreografa Silvia Gribaudi, reduce dalla residenza Peso Piuma – Collective con il BTT, a provare a spiegare questa complessa nozione, letteralmente vissuta sul proprio corpo di artista:
Lavorare all’interno del progetto Swans Never Dieha sollecitato in me, innanzitutto, una riflessione su come tradurre in azione presente una memoria. Mi ha inoltre indotta a concentrarmi sulla relazione tra coreografa, performer e spettatore attivo, in particolare in direzione dell’incontro e di come quest’ultimo ri-generi la danza. Mi affascina la dimensione del processo creativo, tale da condurre l’opera al punto in cui non appartiene né alla coreografa né al performer, né tanto meno a chi la riceve. Al tempo stesso, però, essa appartiene a tutte e tutti. I ruoli si intrecciano, mescolando reciproche intuizioni, reciproci sguardi. Le parti si fondono, potenziandosi a vicenda. Di chi è allora l’opera? Nella Morte del cigno si trattava di un dialogo aperto tra Fokine, il coreografo, e Anna Pavlova, che aveva instillato nel solo, in quanto interprete, la sua espressione unica. Con Balletto Teatro di Torino ci siamo tuffati in questo processo, in quello spazio di relazione in cui le dinamiche non conducono a ruoli predeterminati, bensì dischiudono un reale incontro, che determina rotture e ricomposizioni di codici. Un dialogo empatico finalizzato alla costruzione di patti relazionali tra chi compie l’azione e chi la riceve, ri-trasformandola, per poi restituirla in un ciclo infinito di azioni e reazioni. Peso Piuma – Collective è stata dunque la ricerca di un’osmosi che portasse a una vibrazione vitale, che permettesse una continua trasformazione, offrendo così l’opportunità – a chiunque la praticasse – di esistere nel tempo. Inafferrabile e indefinibile, ma completamente vivo!
Nel «Dancing Museums Glossary», le studiose Susanne Franco e Gaia Clotilde Chernetich, alla vocededicata al re-enactment, annotano:
Even though reenactment defines a very distinct phenomenon that we usually refer to as re-performance, re-make or re-creation, in dance, it certainly offers a different approach to past dances in comparison to the established practice of historical reconstruction. As suggested by Mark Franko in his introduction to The Oxford Handbookof Dance and Reenactment (2018), whereas reconstruction always reveals dance as already historical, reenactment treats the past dance as something that exists in the present. Therefore, it troubles our sense of what we perceive as distant in time, forgotten or lost. In other words, reenactments shift the focus from remaining true to a past source to its appropriation in the present, and in contrast to historical reconstructions, they reject the idea of accurate renderings of a past work from an anti-positivist theoretical perspective. In Performing Remains: Art and War in Times of Theatrical Reenactment (2011), Rebecca Schneider suggests we re-think the ontological status of performance as what remains rather than what vanishes without leaving any trace. Some reenactments for contemporary audiences stage dance works that never lost their place in cultural memory, while others make available for the first time dance pieces that oblivion, marginalisation or censorship have limited in their journey through time and space. These different kinds of reenactment share the rethinking of methods for approaching the past, and the dramaturgical and conceptual framework that removes claims of authenticity. Dance reenactments also reject the linearity of the traditional narratives of dance history, its chronologies and genealogies, which have been taken for granted. For these reasons, they are precious tools for reflecting upon the structures of knowledge that emerge within old and new historical accounts, and for re-thinking how the blurring of reality and historical fiction can be productive.
Volendo azzardare, il campo semantico di pertinenza del re-enactment (all’occorrenza coniugabile nelle sue forme to re-enact e re-enacting) non risulterebbe troppo dissimile da quello descritto delle “ripresentificazioni”, su cui si è ampiamente espressa la critica woolfiana: con tale espressione si allude al processo attraverso il quale il soggetto recupera dal proprio passato, riportandole nel presente, esperienze ormai defunte e le esplora tramite l’ausilio dei sensi. Si tratta dunque di una memoria che torna nuovamente presente, non tanto in forme di ripensamento o rievocazione (à lamadelaine di Proust), quanto piuttosto nella capacità di avvertire l’istante trascorso – a livello percettivo e corporeo – ancora attuale. Una declinazione – si potrebbe asserire – di tipo sensoriale della cosiddetta “memoria involontaria” di Henri Bergson. Nel tentativo di rintracciare un adeguato traducente italiano per il sostantivo, Alessandro Pontremoli – nella nota al testo di André Lepecki, Il corpo come archivio – scriveva:
Il termine è difficilmente traducibile a motivo della sua pregnanza semantica e di esso non dà adeguatamente ragione il termine italiano rievocazione (verbo: rievocare), perché troppo compromesso con fenomeni performativi molto distanti da quello in oggetto, come ad esempio le rievocazioni storiche di molte città italiane. Si [sceglie] comunque la strada di una possibile traduzione, necessaria per una concettualizzazione, anche nella nostra lingua, di alcune fenomenologie coreiche e dei corrispondenti strumenti critici e teorici, seguendo le indicazioni etimologiche e le precisazioni antropologiche proposte da Edward C. Warburton nel saggio Of Meanings and Movements. Re-Languaging Embodiment in Dance Phenomenology and Cognition, «Dance Research Journal», 43, 2011, 2, pp. 65-83: «Enaction is a word derived from the verb to enact: “to start doing”, “to perform” or “to act”» (p. 69). L’espressione italiana che ci [sembra] tener conto del maggior numero di fattori di significato è ri-messa-in-azione (forma verbale: ri-mettere-in-azione). Anche se poco elegante dal punto di vista formale, essa presenta una certa efficacia nel rendere quanto l’autore del saggio intendeva teorizzare e descrivere.
Matteo Tamborrino
Bibliografia essenzialee parziale(in ordine cronologico)
Susanne Franco, Marina Nordera, Introduzione, e Annalisa Sacchi, Il privilegio di essere ricordata. Su alcune strategie di coreutica memoriale, entrambi in Eadd. (a cura di), Ricordanze. Memorie in movimento e coreografie della storia, UTET Università, Torino 2010;
Rebecca Schneider, Performing Remains: Art and War in Times of Theatrical Reenactment, Routledge, London-New York 2011;
Marcella Lista, Play Dead: Dance, Museums, and the “Time-Based Arts”, «Dance Research Journal», XLVI, 3 (2014), pp. 6–23;
André Lepecki, Il corpo come archivio. Volontà di ri-mettere-in-azione e vita postuma delle danze, trad. it. Alessandro Pontremoli, V, 1 (2016), pp. 30-52: <https://journals.openedition.org/mimesis/1109>;
Claire Bishop, Black Box, White Cube, Gray Zone: Dance Exhibitions and Audience Attention, «TDR: The Drama Review», LXII, 2 (2018), pp. 22–42;
Marko Franko (ed.), The Oxford Handbookof Dance and Reenactment, Oxford University Press, New York 2018;
Alessandro Pontremoli, Coreografare Bach. Le Variazioni Goldberg di Steve Paxton e Virgilio Sieni tra percezione e memoria, in Simona Brunetti, Armando Petrini, Elena Randi (a cura di), «Vi metto fra le mani il testo affinché ne possiate diventare voi gli autori». Scritti per Franco Perrelli, Edizioni di pagina, Bari 2022, pp. 354-355.
«One of the most ancient forms of healing» (Kock et al., 2014: 46). Questa definizione sintetizza la prospettiva in cui la danza, in maniera sempre più diffusa, si sta muovendo negli ultimi anni: la dimensione terapeutica, la cura, la pratica come integrazione dei protocolli clinici convenzionali.
Aprendo all’ascolto emotivo attraverso il movimento del corpo, la danzaterapia stimola il processo creativo, favorendo il miglioramento delle dinamiche relazionali, l’arricchimento esistenziale e la resilienza del paziente (Redaelli, 2015). Praticata con persone affette da discinesia dovuta a patologie – come il Parkinson – o alle conseguenze del processo di senescenza, la danzaterapia ha la peculiarità di proporre una stimolazione sia motoria che emotiva, in una patologia i cui sintomi più significativi sono proprio la compromissione motoria accompagnata da anomalie comportamentali.
Questo tipo di intervento trova la sua validazione non soltanto nelle pratiche diversificate che vengono realizzate ormai in molti contesti europei, ma anche sulla letteratura di tipo scientifico, che evidenzia il legame fisiologico fra sistema neuromotorio, empatia, abilità sociali e cinestetiche. Tra le personalità più autorevoli possiamo menzionare Sarah Houston, che sottolinea come sia necessario studiare la danza senza separarla da questioni di tipo politico-culturali, auspicando che la ricerca scientifica ‘pura’ non possa mai trascurare l’importanza del contesto sociale, politico e medico e della tradizione in cui si opera, in quanto si tratta di corpi ‘vissuti’ nella quotidianità. Accanto alle ricerche qualitative di Houston e alle questioni identitarie legate alla disabilità (Houston 2011), vi è una consistente letteratura che analizza come la pratica della danza sia connessa alla stimolazione dei circuiti dopaminergici, associati al piacere ‘edonistico’. La stimolazione dei neuroni della dopamina è legata anche all’apprendimento di rinforzo di competenze motorie (Wood, 2021): la proiezione dopaminergica è quindi collegata alla ricompensa e al piacere. Vi sono pertanto numerose ipotesi che attribuiscono alla dopamina un ruolo di mediazione e adattamento nell’apprendimento motorio: partendo da questi studi, sarebbe possibile ipotizzare l’impatto che l’osservazione dei movimenti della danza avrebbe sui diversi paradigmi comportamentali dell’essere umano. Come è noto, il ruolo della dopamina nell’essere umano è stato studiato principalmente in connessione con i disordini del sistema motorio (morbo di Parkinson) e i comportamenti relativi alla ricerca di ricompensa. Inoltre si deve approfondire come il sistema dei neuroni mirror, implicato nell’osservazione e nella pratica della danza (Calvo-Merino et al., 2005) sia coinvolto nei soggetti affetti da disturbi motori neurodegenerativi.
La pratica del Dance Well, iniziativa sorta con la diffusione di associazioni nate attorno alla Dance/Movement Therapy (Payne, 1997) e sostenuta come trattamento randomizzato di tipo integrativo per alcune patologie, è una tipologia di intervento, non strettamente di ordine terapeutico, finalizzata al miglioramento della qualità della vita. Con esso, contempla anche l’empowerment di persone affette da discinesia, patologie legate all’invecchiamento e decadimento cognitivo, e altresì rivolte al personale sanitario che se ne occupano, compresa la figura del caregiver. Dance Well è un lavoro costante sul gesto e sul movimento, volto ad acquisire nuove competenze in condizione di compromissione motoria dovuta alla malattia. Inoltre, la possibilità di mettere in scena questo processo davanti a un pubblico pone i soggetti in condizione di non essere percepiti come pazienti, ma come veri e propri performer (Franco, 2017). Le metodologie di ricerca prevalenti negli studi su questa malattia sono per lo più di tipo quantitativo (Palermo et al., 2020), collegate a sperimentazioni di tipo clinico e neuroscientifico (test clinici, strumentazioni, test psicometrici) che, dal punto di vista epistemologico, mancano di strumenti per analizzare nello stesso modo il fenomeno della danza.
Dal punto di vista artistico, la comunità della danza risulta sempre più coinvolta in una visione ‘collettiva’ della creazione e interessata ad un coinvolgimento delle comunità all’interno dei processi coreografici e drammaturgici. I processi artistici coinvolgono anche corporeità ‘non conformi’, in un più ampio panorama compositivo: a tal proposito, si può affermare che la creazione realizzata attraverso i corpi dei Parkinson’s dancers si arricchisca di una nuova prospettiva utile per i processi coreografici poi espletati nella messa in scena più ‘tradizionale’ (Houston, 2019); occorre però prestare attenzione a definire queste attività come prassi costante e condivisa, sensibile al valore etico della cura, senza trasformarle in iniziative di natura estemporanea, volte a soddisfare un criterio richiesto dalle istituzioni per l’elargizione di fondi e sostegni.
Andrea Zardi, dottorando in Lettere – curriculum: Spettacolo e Musica / Università di Torino
Bibliografia
Calvo-Merino B., Glaser D.E., Grèzes J., Passingham R.E., Haggard P., Action Observation and Acquired Motor Skills: An fMRI Study with Expert Dancers, «Cerebral Cortex» XV, 2005, pp. 1243-1249.
Farina E., Borgnis F., Pozzo T., Mirror neurons and their relationship with neurodegenerative disorders, «Journal of Neuroscience Research» 98, 6 giugno 2020, pp. 1070-1094.
Fontanesi C., DeSouza J.F.X., Beauty That Moves: Dance for Parkinson’s Effects on Affects, Self-Efficacy, Gait Symmetry, and Dual Task Performance, «Frontiers in Psychology» XI, 600440, febbraio 2021, p. 11.
Franco S., Dance Well: un passo a due con il Parkinson, «Economia della Cultura» II, giugno 2017, pp. 293-298.
Freedberg D., Empatia, movimento ed emozione, in Giovanni Lucignani, Andrea Pinotti (a cura di), Immagini della mente. Neuroscienze, arte e filosofia, Raffaello Cortina, Milano 2007.
Houston S., The Methodological Challenges of Research into Dance for People with Parkinson’s, «Dance Research» XXIX, 2, 2011, pp. 329-351.
Houston S., Feeling Lovely: An Examination of the Value of Beauty for People Dancing with Parkinson’s, «Dance Research Journal» XLVII, 1, aprile 2015, pp. 27-43.
Houston A., Different Bodies. A poetic study of dance and people with Parkinson’s, in Helen Thomas, Stacey Prickett (a cura di), The Routledge Companion to Dance Studies, Routledge, Londra-New York 2019.
Koch S., Kunz T., Lykou S., Cruz R., Effects on dance movement therapy and dance on health-related psychological outcomes: A meta-analysis, «The Arts in Psychotherapy» XLI, 1, 2014, pp. 46-64.
McGill A., Houston S., Lee R.Y.W., Dance for Parkinson’s: A new framework for research on its physical, mental, emotional and social benefits, «Complementary Therapies in Medicine» XII, 3, giugno 2014, pp. 426-432.
Palermo S., Morese R., Zibetti M., Romagnolo A., Pontremoli A., Carlotti E.G., Zardi A., Valentini M.C., Lopiano L., What happens when I watch a ballet? Preliminary fMRI findings on somatosensory empathy in Parkinson Disease. «Frontiers in Psychology» 11, agosto 2020.
Payne H., Danzaterapia e movimento creativo, Erickson, Trento 1997.
Pontremoli A., Elementi di teatro educativo, sociale e di comunità, UTET, Milano 2015.
Pontremoli A., La danza del nuovo millennio fra dissenso e partecipazione, «Culture Teatrali. Studi, interventi e scritture sullo spettacolo» XXX, 2021.
Wood A., New roles for dopamine in motor skills acquisition: lessons from primates, rodents, and songbirds, «Journal of Neurophysiology» CXXV, 2021, pp. 2361-2374.
Che legame può esistere tra danza e digitale, inteso non soltanto come strumento, ma anche quale nuovo spazio di creazione, da indagare e abitare?
Ne hanno parlato lo scorso 10 febbraio all’interno di un webinar realizzato per la Library di Digital Hangar, nel quadro del progetto onLive di Piemonte dal Vivo: Lucia De Rienzo di COORPI, curatrice del progetto re-FLOW, esperienza partecipativa in realtà virtuale; Stefano Sburlati, Francesca Cinalli e Paolo De Santis, impegnati in Hydrocosmos; Elisa Cau e Davide Porta del progetto FASE XL, residenza organizzata da La Mama International/C.U.R.A.; e Chiara Organtini, nuova project manager di Lavanderia a Vapore.
L’incontro – in live streaming dalla Casa della Danza di Collegno – è stato moderato dal Professor Antonio Pizzo, docente di Drammaturgia della Performance Intermediale presso l’Università di Torino. Lo studioso ha aiutato a inquadrare lo stato dell’arte sull’argomento, presentando alcuni virtuosi esempi di commistione tra danza e digitale.