DanzArTe pone l’accento non solo sulla sonificazione dei movimenti dei partecipanti, ma anche sullo sfondo acustico che fa loro da cornice, da “ambiente”. A questo fulcro di interesse se ne collega direttamente un altro, il cosiddetto field recording: la pratica, ai più nota come fonografia, allude a qualsiasi registrazione prodotta al di fuori di uno studio e più precisamente in natura. Ad approfondire questi nuclei tematici – in relazione a DanzArTe – sono Andrea Cera, sound designer, e Andrea Greco, musicoterapeuta e laureando magistrale in Digital Humanities all’Università di Genova, entrambi coinvolti nel progetto.
Il dialogo con Andrea Cera permette di chiarire il modo in cui siano stati realizzati i vari sfondi sonori.
Ci sono tre motivi che ci hanno spinti a creare degli sfondi sonori. In primo luogo, le sonificazioni dei movimenti hanno bisogno di una scena sonora controllata su cui stagliarsi. Essendo suoni esili, a bassa intrusività, dall’andamento imprevedibile (giacché legati al comportamento delle persone che partecipano all’esperienza), hanno bisogno di appoggiarsi su un piano sonoro stabile. In secondo luogo, tali sfondi servono per delimitare l’esperienza di DanzArTe rispetto al tempo e allo spazio della quotidianità, creando un’atmosfera diversa – ma non straniante – rispetto a quella che caratterizza l’ambiente sonoro di tutti i giorni. È come se ci fosse una finestra socchiusa da cui penetra il suono di un giardino. In ultima istanza, gli sfondi sonori aiutano a suggerire uno stato emozionale positivo e rilassato, mascherando possibili suoni irritanti provenienti dal panorama urbano circostante.
Ricerche nel quadro della psicoacustica e dell’environmental design hanno evidenziato (un esempio in [1]) come i suoni di natura siano particolarmente adatti a tali scopi, avendo la capacità di ricreare la salienza di situazioni piacevoli senza dover competere in potenza con suoni disturbanti anche ad alto volume. Quali suoni di natura selezionare per il progetto DanzArTe, in cui l’aspetto visuale riposa su opere di Luca Cambiaso, artista del XVI secolo?
Le opere utilizzate, scelte per la loro pertinenza ai movimenti impliciti e all’aspetto posturale delle figure rappresentate, non forniscono sufficienti informazioni ambientali per permettere un approccio vicino alla cosiddetta “archeologia del paesaggio sonoro” (una disciplina – quest’ultima – che mira a ricostruire il suono di epoche passate, a partire da rappresentazioni di vedute e paesaggi, come nel lavoro di Mylène Pardoën [2]). I quadri di Cambiaso suggeriscono invece un ambiente sonoro scarno, essenziale, sobrio. Abbiamo pertanto cominciato esplorando suoni di natura generici, provenienti da librerie sonore. Ma l’accostamento non funzionava, a causa dell’eccessiva differenza tra l’estetica misurata delle opere pittoriche e la rappresentatività esagerata, quasi caricaturale, da cartolina, dei suoni di natura presenti nelle collezioni commerciali (foreste amazzoniche, panorami caratterizzati da versi di animali esotici, scene iper-realistiche). Nella fase successiva abbiamo quindi cercato di de-contestualizzare questi suoni di natura, mirando a riprodurre l’ascolto immaginario, trasfigurato, che sembrava fissarsi nelle opere pittoriche selezionate. Eliminare la storia, eliminare le tracce dell’attività umana, creare una geografia sonora astratta. Siamo allora ripartiti, cercando i nostri materiali in zone di natura il cui suono odierno potrebbe somigliare a quello ascoltato a suo tempo – nel XVI secolo – dal Cambiaso. Zone della Liguria dove la civiltà moderna non si è ancora insediata, come la Riserva dell’Adelasia.
È ora il turno di Andrea Greco, pronto a raccontare alcune tappe della sua ricerca a caccia di suoni nelle vallate liguri. Un’indagine lontana dalle voci ipertrofiche della contemporaneità e attenta piuttosto a raccogliere i lievi sussurri di una natura ancora protetta dall’industrializzazione.
Questo progetto, che farà parte della mia tesi di laurea, mi ha dato la possibilità di cimentarmi per la prima volta con la pratica del field recording, un’occasione che mi ha insegnato a vedere la mia terra in modo diverso, anzi, a “sentirla”. Può sembrare un gioco di parole funzionale a creare magia, ma non lo è: solo sul campo, infatti, si comprendono le gioie e le difficoltà insite nella ricerca sonora dell’ambiente. Sono partito equipaggiato con ciò che avevo a disposizione: una macchina fotografica (Canon EOS 6D) e un microfono shotgun (Rode VideoMic pro) che già utilizzavo per la produzione di contenuti per i social media. Così ho perlustrato alcune zone naturali della mia città, Savona, da Vado Ligure a Varazze, toccando luoghi di rilievo come la pineta Bottini di Celle Ligure o il parco naturale dell’Adelasia con i suoi faggi monumentali. La Liguria, pur essendo una sottile striscia di terra, presenta una ricca biodiversità che permette di spostarsi tra paesaggi differenti in tempi relativamente brevi: al mattino sei sulla spiaggia ad ascoltare il mare e nel pomeriggio puoi percorrere sentieri boschivi immersi in una nebbia che dona al luogo l’atmosfera di un film fantastico vecchio stile. Ovviamente ci sono alcune difficoltà: in estate, per esempio, le registrazioni sono rese più difficoltose dal turismo; in inverno invece i disagi sono dettati dal calo delle temperature (per le registrazioni è richiesto infatti il massimo silenzio possibile: ciò significa restare immobili per diversi minuti alla mercé del freddo). Con il field recording l’ascolto diventa un esercizio attivo e si scoprono tutti quei dettagli che normalmente vengono dati per scontati. Pensi: “Dai, oggi si va in campagna… ne approfitto e faccio due riprese del vento. Facile e veloce”. Ma è capitato più di una volta di non trovare un filo d’aria – fenomeno raro per chi viva in riva al mare come me, dove il vento è praticamente una costante. In presenza del vento, viceversa, capitava che il materiale della registrazione fosse contaminato da voci umane in lontananza, oppure dal rombo delle moto e delle automobili di passaggio sui tornanti collinari. In un angolo verde nei pressi di Giusvalla, dove una cascatella artificiale crea un piccolo stagno, a tratti il verso delle cicale e lo scorrere dell’acqua venivano accompagnati dal rumore di elicotteri e aeroplani. Sembrava di essere capitati proprio sotto a una porzione di cielo dedicata alle rotte di volo. Ammetto di essere stato accompagnato dalla frustrazione nel mio percorso di ricerca sonora e ho imparato quanto il “fattore umano” sia onnipresente, nelle sue mille forme, anche in luoghi che si immaginano isolati. In città poi (per le riprese sonore delle onde marine) questo è un problema estremamente rilevante, che mi ha costretto spesso a mettermi all’opera in piena notte, in attesa che la città dormisse. Alcune delle registrazioni hanno quindi subìto un processo di taglio di brevi porzioni: quanto bastava per eliminare le intrusioni umane da quel mondo che si fa impronta sonora del paesaggio ligure. Un’impronta, quella naturale, che muta in un tempo lento, non compatibile con il nostro – frenetico – ma che, in virtù di ciò, collega trasversalmente le vite del presente e del passato. Allora diventa facile credere che la voce del mare o gli odierni pettegolezzi, portati di selva in selva dai quattro venti, non siano troppo dissimili da quelli che il Cambiaso poteva udire percorrendo i sentieri della sua Genova.
La partecipazione al progetto DanzArTe ha fornito al Museo Diocesano di Genova un’occasione unica per sperimentare, all’interno della collezione, un approccio di arte-terapia con cui valorizzare le potenzialità semantiche delle opere d’arte al di là dell’aspetto estetico e del loro contenuto storico-artistico, mettendo al centro dell’attenzione la percezione e l’interazione fisica del fruitore.
Ebbene, a spingere alla partecipazione a questo progetto sono stati da un lato l’interesse per gli studi che da anni vengono condotti in quest’ambito, dall’altro il desiderio di rinnovare e diversificare l’approccio che il pubblico del museo ha nei confronti delle opere d’arte.
Che il godimento provocato dalla visione un dipinto, l’ascolto di un brano musicale o il contatto con la bellezza di un paesaggio naturale donino benessere fisico e psichico non è certo una novità: poeti, artisti e scienziati lo hanno sempre affermato; mancava però l’evidenza scientifica, il dato misurabile, cui si è dato forma rappresentabile soltanto negli ultimi decenni. Le riflessioni sull’impatto terapeutico dell’arte hanno conosciuto, specie nel corso degli ultimi due anni, toccati pesantemente dalla pandemia, un netto incremento. Ciò è appunto avvenuto in un tempo in cui le istituzioni culturali in genere e i musei in particolare – costretti a una prolungata chiusura – hanno dovuto riflettere su come interagire al meglio con un pubblico che non poteva più accedere fisicamente a quegli spazi.
Dalle esperienze canadesi del Musee des Beaux Arts di Montreal – che ha inaugurato un vero e proprio servizio di art-therapy giacché lì la frequentazione del museo viene prescritta dai medici quale strumento per curare o alleviare talune patologie – fino al MOMA di New York, passando per esperienze britanniche, la valorizzazione del supporto che le arti offrono al raggiungimento del benessere fisico e psicologico è andata sempre più crescendo. La terapia che utilizza l’espressione artistica ha dischiuso così un ventaglio sempre più vasto di applicazione concrete, con risultati finalmente misurabili in termini di efficacia riabilitativa e di recupero della dimensione più profonda del vissuto: solo per citare alcuni esempi, la strutturazione di esperienze laboratoriali per risvegliare le risorse vitali e creative nei malati di Alzheimer o nelle persone affette da autismo; l’utilizzo di matite, pennelli e opere d’arte per combattere le angosce e gli stati dolorosi provocati dagli isolamenti dell’era pandemia; esperimenti per risolvere problemi di daltonismo. O ancora l’utilizzo del medium artistico per lasciar emergere quei piccoli traumi quotidiani di cui si fatica a parlare.
In questo senso – con tono brillante, umoristico e nel contempo profondo – il video What is Art for? del saggista svizzero Alain de Botton enumera ben cinque motivi per cui l’arte risulta importante nelle nostre vite, indipendentemente dalla conoscenza dei contenuti storico-artistici o dalla competenza interpretativa di ciascuno. A importare davvero è ciò che riceviamo dall’osservazione di un’opera d’arte, in termini di equilibrio personale e di risorse energetiche.
Gli esempi presentati fin qui interagivano con la dimensione psicologica dell’osservatore. Nel caso specifico di DanzArTe le opere pittoriche – concepite come se si trattasse della rappresentazione del fermo-immagine di un istante vitale – sono state prescelte per la loro capacità di istituire un’interazione fisica con il visitatore-paziente. Spetta poi a quest’ultimo, tramite l’utilizzo di un software dotato di sonificazione e di una proiezione dell’immagine stessa, il compito di replicare il movimento insito nel dipinto, per completarlo e portarlo alla sua naturale conclusione. Questa modalità di interazione è sfruttata anche nella didattica museale, al fine di valorizzare l’approccio corporeo all’opera rispetto al più tradizionale contatto visivo, favorendone contestualmente una diversa comprensione, creando tableaux vivants e servendosi della didattica del learning by doing, utile a comprendere il linguaggio dell’artista e a immedesimarsi nello spirito del quadro.
L’attività del Museo nell’ambito di DanzArTe si è articolata in due fasi: dapprima, la ricerca delle immagini più adatte; dopodiché, la realizzazione di test all’interno degli spazi museali, una fase – questa – di prossima attuazione. L’artista individuato grazie alla consulenza di Lauro Magnani – professore ordinario di Storia dell’arte moderna presso l’Università di Genova – è stato Luca Cambiaso, pittore genovese del XVI secolo, selezionato per la sua particolare tecnica nel disegno preparatorio, fondato su un modello stereometrico (la cosiddetta “maniera cubica”) in cui la figura umana è delineata attraverso la successione di elementi cubici, fino ad arrivare alla definizione proporzionale delle parti. Si tratta di una modalità che è risultata assai utile nell’elaborazione del software.
Le immagini richieste dovevano comprendere figure a tutt’altezza, sia singole che articolate fra loro, secondo il modello della Sacra Conversazione o della Sacra Famiglia [1] (ossia più personaggi interagenti all’interno del medesimo dipinto, in reciproca relazione visiva o fisica). Era altresì necessario che le opere fossero collocate all’interno di una cornice museale o di una chiesa, luoghi cioè di fruizione pubblica. Ogni immagine pittorica è stata individuata in base alla qualità del movimento, cristallizzato in una particolare posizione ma tale da poter essere replicato, ri-vissuto e concluso. Al primo gruppo di opere appartengono i dipinti con San Gioacchino, Sant’Anna (entrambi nella Cattedrale di San Lorenzo di Genova) e il Battesimo di Gesù (Chiesa di Santa Chiara in San Martino d’Albaro di Genova), tutte e tre con iconografia coerente con le finalità richieste; nel secondo gruppo si annoverano invece il Riposo durante la fuga in Egitto (Museo dell’Accademia Ligustica di Genova) di cui si è isolato il gruppo della Madonna che mostra Gesù agli angeli, la Pentecoste e infine La Vergine e il Battista intercedono presso Cristo in gloria (Musei di Strada Nuova a Palazzo Bianco, Genova).
Ora, a seguito dell’elaborazione del movimento tramite software e della sua sonificazione, il Museo – insieme ad alcune RSA – ospiterà la succitata fase di test, coinvolgendo dapprima persone senza particolari deficit motori, validando con loro il programma e adattandolo per la successive sperimentazioni all’interno delle RSA. Ritengo però che al di là dei risvolti terapeutici il programma potrebbe costituire l’occasione, per chiunque, di intessere una relazione più coinvolgente con la rappresentazione artistica tramite l’immedesimazione psicologica e fisica, e restituendo in benessere reale quanto l’artista ha espresso tramite la propria interiorità.
Paola Martini, Direttrice Museo Diocesano di Genova
[1] Quest’ultima anche nella versione con la Madonna seduta che sorregge il Bambino.
Immagine in evidenza: Luca Cambiaso (Moneglia 1527-Escorial, 1587) – Sant’Anna (olio su tela, 1569 circa), presso Cattedrale di San Lorenzo, Genova
Il teatro quale atavica manifestazione del rapporto tra fatto creativo, luogo fisico e società: è da questo assunto che ha preso avvio, il 9 settembre scorso, il Convegno Internazionale “Teatro e spazio pubblico”, organizzato dalla Libera Università e dal Teatro Stabile di Bolzano con il patrocinio dell’AIS – Associazione Italiana di Sociologia, in collaborazione con l’ISA – International Sociological Association e RC27 Sociology of Arts. A coordinare i lavori, Ilaria Riccioni, ricercatrice e docente di Sociologia generale alla LUB, nonché autrice – fra gli altri – del volume Teatro e Società: il caso dello Stabile di Bolzano, recentemente edito per i tipi di Carocci (Roma, 2020).
A ben guardare, l’allitterante trinomio scena-spazio-società è un tipico connubio di lunga durata. Nell’Atene del V-IV secolo a.C., il teatro rappresentava l’anello di congiunzione tra speculazione filosofica, praticata lungo la via del Peripatos, e maestosità dell’Acropoli. A livello geografico, il teatro di Dioniso – sede di agoni e tetralogie – era situato ai piedi del Partenone, tempio dedicato a Zeus e successivamente consacrato ad Atena, la protettrice della polis partorita dal capo del padre, nota ai più come paladina della sapienza. La conoscenza, dunque, è il traguardo di un lento percorso gnoseologico ed emotivo, che ha origine nel teatro, nell’esperienza rituale collettiva, e che, passando per la catarsi, l’inflazionata purificazione delle/dalle passioni, raggiunge la comunità, quella politeia che, riunitasi nel theatron e grazie alla visione delle più indicibili nuance del proprio agire, prende coscienza di sé, del proprio edipico “errare”.
Ora, come segnalava Riccioni nella call for papers del Convegno, «nella società contemporanea interconnessa e virtuale il teatro mantiene la propria funzione, grazie alla sua qualità di arte dinamica che riproduce l’esperienza del qui ed ora. Ancora di più, nell’era del consolidamento dell’uso del digitale nella vita quotidiana, il teatro può vivere una stagione di rinnovata vitalità e di estremo interesse in termini sociali, giacché offre uno spazio di creatività. Lo spettatore diventa così compartecipe della costruzione del significato collettivo dell’evento e al tempo stesso ne viene trasformato attraverso la relazione diretta. Secondo Ferrarotti l’arte e la società si incontrano in un complesso abbraccio e, a seconda della stretta, quest’ultimo può diventare mortale o salvifico».
La tre giorni bolzanina si è perciò proposta di indagare, grazie all’intervento di ospiti italiani e stranieri, le molteplici declinazioni dell’attività teatrale in contesti sociali, approfondendo – tramite nove macro-temi (teatro e società, teatro e spazio pubblico, teatro e sociologia, teatro e social media, performance e spazi urbani, teatro e benessere, nuove prospettive semantiche nelle performance e processi di inclusione sociale) – una fitta rete di sottili problematiche, dalla funzione del corpo all’interno di uno spazio condiviso alla teatralità come opportunità di sviluppo dell’immaginario, passando per i processi pedagogici e le esperienze di comunità. E ancora, le ibridazioni linguistiche, il welfare territoriale, la relazione con l’altro, la politica culturale, le azioni agit-prop.
Tra la Sala Grande del Teatro Comunale e le aule della LUB si sono così alternati ben quaranta relatori, ciascuno portando all’attenzione della platea motivi e figure di notevole interesse: soltanto per citare qualche nome, l’Estate Romana di Nicolini, al centro dell’intervento del Prof. Guarino (Università Roma Tre); le pratiche performative per l’inclusione dei migranti a Milano, su cui ha riferito la Dott.ssa Guerinoni (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano); o ancora gli sconfinamenti dallo spazio pubblico urbano nella cornice dei festival teatrali, proposti dalla Dott.ssa Pratelli (Università di Pisa). Accanto ai case-study non sono mancate riflessioni teoriche di più vasto respiro, come l’affondo su teatro e tecnologia del Prof. Amendola (Università di Salerno) o l’idea di teatro come spazio di liminalità pubblica nell’era digitale avanzata dal Prof. Deriu (Università di Teramo). Molti inoltre i contributi d’Oltralpe, firmati da esimi studiosi provenienti da Londra, Gottinga e Zagabria, dal Texas e perfino dal Cile. A completamento delle iniziative, le presentazioni di Teatro Stabile di Bolzano. 70. La storia, gli spettacoli (Electa, 2021), volume di Massimo Bertoldi con intervento di Marco Bernardi, e della già citata monografia di Riccioni. L’occasione convegnistica pare in effetti germinata proprio dall’indagine condotta dalla ricercatrice in seno all’ente teatrale cittadino: un’esplorazione corredata da interviste agli spettatori, alla scoperta delle diversità culturali (e linguistiche) del territorio.
Naturalmente, nel capoluogo altoatesino, sede di Tanz Bozen, non poteva mancare la danza, protagonista di due relazioni: la prima, a cura del dottorando Andrea Zardi (Università di Torino), incentrata sulle cosiddette “drammaturgie del distanziamento”, ossia i rapporti tra arte coreica e spazio pubblico nell’età post-pandemica; la seconda, opera di chi scrive, sceglieva invece come focus la Casa della Danza di Collegno e le sue progettualità. Appare tuttavia doverosa, prima della sintetica descrizione dei contenuti dell’intervento (di prossima pubblicazione), una breve premessa.
Come ricorda Cruciani, a partire da Grotowski «lo spazio scenico […] diventa un dispositivo che struttura la relazione sulla scena e, attraverso la scena, con gli spettatori». Negli ultimi settant’anni, in effetti, una precisa funzione drammaturgica dello spazio va progressivamente affermandosi, definendo la spazialità quale parte integrante di una più vasta e composita scrittura scenica. Contestualmente – spiega De Marinis – tale spazio è sempre più vissuto come un luogo di partecipazione, come una realtà in cui l’agognata relazione tra attori e pubblico diventa possibile, anzi reale. Ovviamente lo spazio teatrale di cui qui si parla è inteso in senso lato, non coincidendo necessariamente o semplicemente con il luogo della messinscena. Può infatti sconfinare in altri ambienti e contesti, risemantizzandoli a livello storico e donando loro nuova linfa. Il teatro invade perciò la realtà urbana, i suoi monumenti, le sue vestigia (sebbene il binomio teatro/città, come ben sapeva Zorzi, non sia certo una costruzione dei “nostri tempi”). Questa teatralità diffusa – va da sé – non solo si sovrappone alle mere architetture (gli “spazi fisici”), ma interagisce con comunità e gruppi (gli “spazi umani”), facendosi marca di inclusione. Per dirla con Badiou, il teatro «is an art of the collective».
Ora, il processo di risemantizzazione storica e di rigenerazione relazionale risulta tanto più vivido – come insegna Pontremoli in Elementi di teatro educativo, sociale e di comunità (UTET, 2015) – se ad essere coinvolto è un “luogo del disagio”, per esempio un ex-ospedale psichiatrico, dove la parola un tempo segregata e il corpo anticamente coatto possono finalmente aprirsi e liberarsi nello spazio. Tutto ciò rende la Lavanderia a Vapore – in virtù del suo passato di coercizione e della sua attuale essenza di luogo abitato, di punto di riferimento pubblico per artisti e comunità – un caso particolarmente rappresentativo.
Venendo all’intervento, dal titolo Lavanderia a Vapore, da manicomio a Casa della Danza. Un’esperienza contemporanea di relazione fra spazio teatrale e comunità territoriali, dopo un breve recap sulla storia del luogo, ala del famigerato manicomio di Collegno, e una rapida postilla terminologica sulla nozione di “comunità”, esso si concentrava sull’attuale mission del Centro di residenza e sul suo regime di governance condivisa. L’attenzione era poi posta su uno dei tre obiettivi-chiave della Lavanderia: PARTECIPARE. Al di là delle specificità del complesso architettonico e delle sue traumatiche radici, appare infatti cruciale qui il rapporto con la cittadinanza, coinvolta in numerosi progetti. Si passavano a questo punto in rassegna tre esempi di coinvolgimento attivo delle comunità locali: Media Dance, programma di innovazione didattica rivolto a studenti e docenti; Dance Well Dancers, percorso artistico e filosofico teso a superare le differenze imposte dalla malattia, in direzione della costituzione di una comunità di pratica mista e inclusiva; e infine la residenza, strumento attraverso il quale gli artisti possono relazionarsi con specifici gruppi sociali, nutrendo la propria ricerca.
Matteo Tamborrino, dottorando in Storia del teatro presso l’Università di Pisa e cultore della materia in Discipline dello spettacolo all’Università di Torino
Ciao Enrico, di cosa ti occupi? E cosa “ti muove”?
Io sono critico di teatro intendendo questa parola nel più ampio significato del termine. Mi occupo di tutto ciò che potrebbe essere racchiuso nell’espressione “spettacolo dal vivo” benché l’espressione non mi convinca fino in fondo. Scrivo per due riviste di rilievo nazionale: Il Pickwick e Paneacquaculture. Mi muove innanzitutto la curiosità di comprendere dove stanno andando le nuove generazioni e le loro ricerche. Mi interessa studiare il sistema nel suo complesso, comprenderne le criticità e, nel mio piccolo, proporre delle riflessioni su cui ragionare per migliorarlo.
Come sei entrato in contatto con la Lavanderia a Vapore, con Zerogrammi e poi con il progetto Permutazioni?
Con la Lavanderia il contatto è avvenuto naturalmente, seguendo gli spettacoli e le rassegne di danza proposte dalla stagione. In seguito sono giunte altre forme di presenza, sia in come fruitore di residenza (penso alla collaborazione con Marco Chenevier, le cui ultime fasi di lavorazione di Confinati dal Paradiso per TorinoDanza si sono svolte proprio in Lavanderia), sia come frequentatore di convegni e attività parallele a quelle performative. Riguardo a Permutazioni tutto è iniziato da un invito ricevuto da Stefano Mazzotta di Zerogrammi, penso tre anni fa. Ho accettato perché credo sia un dovere per un critico occuparsi con responsabilità di ciò che nasce tra i giovani creatori e provare a fare emergere le ricerche più meritevoli di tempo, cura e attenzione.
Quali sono i punti di forza, secondo te, di questo progetto rispetto al territorio piemontese e poi a un ecosistema danza più ampio?
Sicuramente l’attenzione al valore della ricerca in sé, nel coltivarla con spirito contadino, con pazienza e devozione. Il lungo periodo di offerta di residenza aiuta i ragazzi a non avere fretta, male di cui in questi anni siamo tutti affetti, a concentrarsi su ciò che veramente è importante avendo il tempo di porsi domande scomode. Inoltre trovo che il non obbligo a un esito conclusivo, ma piuttosto l’invito concentrarsi sul processo compositivo e creativo, sia il punto focale del progetto. Oggi si mira solo ed esclusivamente a produrre. Riportare l’attenzione sull’immaterialità del processo di creazione artistica, sul suo lavorio di bottega artigianale in cui l’opera sorge dopo molti errori, aggiustamenti, ripensamenti, sia un dovere di fronte alla deriva produttivistica dell’intero sistema. La filiera oggi imbriglia i giovani fin da subito. Non permette loro un fecondo placet experiri ma li invita a a finalizzare il prima possibile senza il tempo di formarsi un vero e solido bagaglio di conoscenze e tecniche, necessarie per una vera crescita.
Nel progetto Permutazioni è spesso citata la figura del tutor: che cosa è per te?
Credo molte cose. Innanzitutto un ascoltatore. Bisogna capire le esigenze vere dei giovani artisti e mettersi al loro servizio. Un maieuta pronto a far sorgere ciò che è già presente nel cuore dei ragazzi e nel processo da loro avviato. Un consigliere, le cui maggiori esperienze possano aiutare i giovani a districarsi nell’orribile selva selvaggia che abbiamo lasciato loro in eredità, ma lasciando che siano loro a compiere le scelte in sintonia con il proprio sentire e la propria coscienza. E, da ultimo, la cosa più difficile: il farsi da parte quanto non si è più utili. A volte c’è la tentazione di esser parte o di continuare a guidare anche laddove vi è ormai la capacità di correre da soli. È tutto molto difficile. Si impara insieme ai giovani, si sbaglia insieme, si cresce insieme.
Sappiamo che sei un critico molto attivo e che le tue visioni si contraddistinguono per onestà e concretezza. Con questi stessi presupposti vuoi darci un punto di vista (e qualche esempio) sul futuro della danza?
Questa domanda necessiterebbe di una lunga risposta. Forse direi una capacità nella vecchia generazione, che per ora non vedo, a ripensare il sistema emendandone gli errori. Vi è una responsabilità in ciò che si è costruito, e quindi conseguentemente vi è una pari responsabilità nel correggere gli errori di cui si è stati causa. Bisogna lasciare un mondo migliore a quello che ci è stato lasciato in eredità. Poi sarà un dovere dei giovani costruire un altro mondo. Ma dobbiamo donare gli strumenti affinché possano farlo.
Le tendenze, i bisogni e i desideri del pubblico si stanno sempre più decisamente orientando verso la partecipazione attiva, con progetti che hanno recepito questa sensibilità nel campo dello spettacolo dal vivo e delle arti in genere, in un’ottica di welfare culturale, “un nuovo modello integrato di promozione del benessere e della salute e degli individui e delle comunità, attraverso pratiche fondate sulle arti visive, performative e sul patrimonio culturale” (Annalisa Cicerchia, Che cosa muove la cultura, Editrice Bibliografica, Milano, 2021, p. 215).
Gli obiettivi possono essere diversi:
# riqualificazione territoriale e rigenerazione urbana;
# attivazione della cittadinanza e partecipazione attiva;
# formazione e integrazione sociale a base culturale;
# progettazione partecipata;
# promozione della salute;
# servizi culturali in contesti periferici.
Sono iniziative che hanno coinvolto grandi città e aree interne, vecchi e nuovi presidi culturali, festival residenze e progetti. Stanno rinnovando le pratiche culturali e forse l’idea stessa di cultura: non più soltanto una nobile attività dello spirito e della mente, ma un processo che coinvolge i cittadini e gli spazi in cui vivono. Come Ateatro e con il progetto Le buone pratiche del teatro, da vent’anni seguiamo l’evoluzione e l’ascesa irresistibile del rapporto fra teatro, promozione sociale, partecipazione. Tra il 2004 e il 2014, per il saggio Le Buone Pratiche del teatro (FrancoAngeli, Milano, 2014), abbiamo censito oltre 140 esperienze e molte di esse si muovevano in questa direzione.
Successivamente abbiamo dedicato diversi appuntamenti al teatro sociale e ai progetti partecipativi. Di recente, nella collana ‘Lo Spettacolo dal Vivo’ che seguiamo per Franco Angeli abbiamo ospitato il libro a cura di Claudio Bernardi e Giulia Innocenti Malini Performing the social. Education, Care and Social Inclusion through Theatre.
Abbiamo identificato in questo fenomeno uno degli aspetti più rilevanti nella ricerca artistica contemporanea, che ha interessanti ricadute anche sul versante della sperimentazione sociale ed è in grado di creare incontri molto fertili tra professionalità diverse e di dare al teatro motivazioni nuove e rinnovare quelle antiche e profonde. L’estate del 2021 ha visto la faticosa ripresa delle attività culturali in presenza, soprattutto con eventi all’aperto. La riconquista dello spazio pubblico e di una socialità condivisa, la ripresa del confronto e del dibattito in presenza, sono il presupposto per superare il “confinamento domestico” della pandemia, che ha privilegiato i consumi culturali individuali, collegati alle piattaforme di streaming audio e video e ai social network.
La cultura, in particolare con la progettazione partecipata, ha un ruolo propulsivo nella creazione di capabilities (capacitazioni) e di cittadinanza attiva. Dispositivi come i nuovi spazi culturali, le residenze e i festival, con la loro socialità e l’enfasi sulla dimensione fisica, corporea, oltre che con il rapporto con i territori, offrono strumenti insieme pratici e simbolici per innescare i processi di innovazione e coesione sociale.
L’azione #oltrelacittà costituisce un’occasione ulteriore di riflessione su queste pratiche di partecipazione «ai tempi della pandemia» e vuole indagare questo fenomeno in un’ottica di promozione, studio e divulgazione. La tappa di Torino e Collegno, Riqualificazione e partecipazione: metodi, pratiche e prospettive, a cura di Stefania Minciullo e Giulio Stumpo con la collaborazione di Alessandra Rossi Ghiglione e Filippo Tantillo, vuole riflettere sul rapporto tra progettualità e sostenibilità, per impostare le basi di una politica culturale che sappia accogliere, promuovere e valorizzare le realtà che operano in questa direzione.
Nella prima giornata, nel pomeriggio di domenica 17 ottobre allo Spazio BAC, verranno presentati e discussi i risultati dell’analisi comparativa condotta in questi mesi su alcune tra le realtà più interessanti del settore da un gruppo di lavoro guidato da Giulio Stumpo, Stefania Minciullo e tre giovani Under 28 che hanno intrapreso un percorso formativo con l’associazione.
Le realtà che hanno preso parte allo studio e che saranno presenti a Torino sono:
● Centro IAC (Matera)
● Civico Trame (Lamezia Terme)
● Collettivo Amigdala (Modena)
● Industria scenica (Vimodrone)
● Lavanderia a Vapore (Torino)
● Melting Pro (Roma)
● Minima Theatralia (Milano)
● Teatro Biblioteca Quarticciolo (Roma)
● Teatro Povero di Monticchiello
● Tib Teatro (Belluno)
I risultati di questo incontro forniranno lo spunto per la discussione del 18 ottobre, presso la Lavanderia a Vapore. Operatori e curatori di nuovi spazi e nuovi progetti, docenti, amministratori, studiosi e critici, cercheranno di delineare le condizioni necessarie per una efficace politica culturale della partecipazione.
Hanno assicurato la loro partecipazione, tra gli altri: Sandra Aloia, Giorgio Andriani e Antonino Pirillo, Micaela Casalboni, Patrizia Cuoco, Luca Dal Pozzolo, Francesco De Biase, Fabrizio Fiaschini, Mimma Gallina, Giulia Innocenti Malini, Maria Luisa Mattiuzzo, Luca Mazzone, Matteo Negrin, Davide Lorenzo Palla, Elina Pellegrini, Oliviero Ponte di Pino, Alessandro Pontremoli, Alessandra Rossi Ghiglione.
L’azione #oltrelacittà è curata dalla Associazione Culturale Ateatro nell’ambito del progetto Le Buone Pratiche della Ripartenza. È realizzato in collaborazione con Fondazione Piemonte dal vivo, SCT Centre – Università di Torino, Teatro Libero di Palermo, Teatro Biblioteca del Quarticciolo, con il contributo di Fondazione Cariplo e il sostegno del Ministero della Cultura e del Comune di Manciano.
La prima indagine ha portato all’appuntamento delle Buone Pratiche al Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma, il 23 marzo 2021, sul tema Cultura Territori Comunità.
Nel corso della giornata, a cura di Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino con il coordinamento di Stefania Minciullo, sono state presentate diverse esperienze e progetti da tutto il territorio nazionale.
Successivamente, in una intensa due giorni curata da Elina Pellegrini, il festival A Veglia a Manciano ha accolto due incontri, il primo dedicato a Comunità, sostenibilità, energie creative, il secondo a Spettacolo dal vivo e turismo – Strategie e strumenti di incontro.
Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino, associazione culturale Ateatro