Giovedì 16 marzo a Torino si è svolta, nell’ambito del 22° Glocal Film Festival, la cerimonia di premiazione del concorso “La Danza in 1 minuto” per la sezione ONE MINUTE – Z GENERATION. La giornata è stata anche l’occasione per festeggiare i 10 anni di collaborazione tra COORPI, associazione organizzatrice del contest di screen dance, e Piemonte Movie che da dieci anni si prodiga nel portare avanti, con uno sguardo interessato e attento, il Glocal Film Festival. Quello di giovedì è stato un pomeriggio all’insegna della danza, vissuta attraverso un rapporto dialettico tra il dentro e il fuori dagli schermi. Tre gli appuntamenti, districati in diversi spazi, che hanno preceduto il momento finale. Dalla prima tappa, quella della galleria di arte contemporanea Recontemporary, il pubblico si è poi spostato al Cinema Massimo, sostando anche in via Verdi per qualche momento di danza dal vivo.
Sono circa le 15:15, tra le strade sotto la Mole si respirano i primi refoli di una primavera che è quasi alle porte. L’ombra del celebre edificio progettato da Alessandro Antonelli nel 1862 sta per plasmarsi a tocchi di danza. Il sole caldo del meriggio illumina i tanti passi avvicendati lungo via Gaudenzio Ferrari. La destinazione è Recontemporary, galleria esclusivamente dedicata alla new media art, che in occasione della giornata di premiazione del concorso La danza in 1 minuto ospita l’istallazione di danza in realtà aumentata “Acqua Alta – La traversée du miroir” (trad.: Attraverso lo specchio) di Claire Bardainne e Adrien Mondot.
L’istallazione è la narrazione del rapporto tra una donna, un uomo e un luogo, una casa. È la storia di una routine quotidiana in bilico. Un limen contraddittorio e vertiginoso.
Dei libri pop-up, dalle colorazioni monocrome, sono posizionati su un lungo tavolo posto al centro della sala principale della galleria. I visitatori attraverso dei tablet, inquadrando le architetture che emergono tridimensionalmente dalle pagine dei libri. Dagli schermi dei device invece si possono vedere le figure animate, total black, della donna e dell’uomo muoversi instancabilmente tra le geometrie dello spazio tracciate dai pop-up. Si osservano i corpi entrare in relazione. Ma ecco che irrompe l’imprevedibilità del disordine. La pioggia si abbatte improvvisa sulla casa. L’acqua nero inchiostro inizia a sommergere tutto, comprese le due figure. Della donna resteranno visibili soltanto i capelli che continueranno a galleggiare trasportati come da dalle correnti.
L’istallazione si concentra sul concetto di perdita e sull’istinto umano al dover ricercare. Emerge la paura nei confronti dell’ alterità (in termini socioculturali, oltre che filosofici), ma non solo. I due artisti indagano su come domare la paura verso ciò che sconvolge perché sconosciuto.
Dopo il primo momento che ha dato il via alle danze, il luogo dell’azione si sposta al Cinema Massimo all’interno della sala dedicata a Mario Soldati. In programma il Tolk di Enrico Coffetti, fondatore di Cro.Me – Cronaca e Memoria dello Spettacolo di Milano – dal titolo “Dance on Screen”. L’imprevedibilità, questa volta benevola, aleggiando nell’aria tiepida di questo pomeriggio di marzo, porta una leggera modifica sulla conduzione del panel. Alla presenza della studiosa e critica di danza Elisa Guzzo Vaccarino non le si può che richiedere un intervento. Il momento si trasforma così in una co-conduzione appassionata e densa sulla storia della screen dance.
Lo schermo della sala Soldati, nel corso dello svolgimento dell’incontro, si illumina di performance. I video proposti aiutano i presenti a districarsi all’interno di una prospettiva di studio di notevole ampiezza.
Il tempo incalza, dalla magica sala buia si passa alla strada. L’appuntamento è all’ingresso del Cinema Massimo, in via Verdi. Sono circa le ore 18:00, i sempre più numerosi capannelli di gente attendono intrepidi le due micro coreografie “La la dance” e “Hair Tribe” approntate dall’Associazione Eclectica, con le coreografie di Federica Pozzo.
Le danzatrici sono: Cecilia Bava, Isabel Borella, Cecilia Cisella, Margherita Data Blin, Arianna Falciola, Alice Tarabra. Numerosi i passanti, che attratti dalla fiat cinquecento rosso aragosta, scenografia delle performance, si fermano a dare un’occhiata a ciò che succede. Si inizia od udire la musica, le porte del Massimo si spalancano e finalmente fanno la loro comparsa le sei danzatrici. Indossano dei trench di differenti colorazioni. Si va dall’arancio al verde petrolio, passando per diverse gradazioni di beige e di blu. Inconfondibile, sia nel titolo che nelle musiche, l’omaggio al film musical “La La Land” diretto da Damien Chazelle con le musiche di Justin Hurwitz e al rock musical “Haire” scritto” da James Rado e Gerome Ragni, con musiche di Galt MacDermot.
Un vortice dinamico si trasferisce dalle danzatrici agli spettatori. La vettura, dallo smalto brillante, diviene centro dell’azione. Le performer entrano in relazione con essa. I movimenti zelanti si susseguono, la scenografia viene agita. Le portiere vengono aperte, i movimenti e i gesti, in rapida successione, si inscrivono all’interno dell’abitacolo dell’auto. I tanti smartphone si alzano ad immortalare il momento. Qua e là si vedono alcuni piedi degli spettatori muoversi a tempo di musica. Il ritmo sembra essersi ulteriormente acceso. Si è decisamente pronti per rientrare in sala, questa volta per il momento finale, oltre che più atteso della giornata. Son tutti pronti per assistere alla premiazione.
La sala è ancora una volta la Soldati. Il pubblico è numeroso, tra i concorrenti presenti si respira l’intrepida voglia di scoprire i risultati delle votazioni della giuria.
A prendere la parola è Lucia Carolina De Rienzo, direttrice artistica del contest di video danza, che rivolge i ringraziamenti a Piemonte Movie per l’ospitalità, ai vari partners, ai sostenitori, alla rete di realtà che appoggiano l’evento e naturalmente agli autori presenti tra il pubblico. Ad affiancarla Marco De Pasquale coordinatore della novella commissione artistica DAMS & CAM formata da Alice Dell’acqua, Gianluca Fiore, Sofia Fiorentini, Samuele Giubergia, Parnian Javanmard e Michele Pecorino.
È proprio scelta di quest’anno, con l’edizione dedicata alla generazione Z, quella di formare una commissione artistica composta da under 26.
Tra i 15 finalisti selezionati è stata poi la Giuria di Qualità, composta da Irene Dionisio – regista (presidente di giuria), Elisa D’Amico – danzatrice freelance, Francesco Dalmasso – danzatore freelance, Guglielmo Diana – musicista e sound designer, Marco Longo – regista e produttore e Carlota Machado – Direttore di produzione, Quinzena de Dança de Almada – Festival Internazionale di Danza, Portogallo – a decretare i vincitori.
Arriva il momento magico, in sala le luci si spengono per lasciare spazio alla proiezione dei primi dieci video ammessi alla votazione on-line, comprendente un totale di 25 lavori.
In questa edizione, il numero dei candidati provenienti dall’Italia è considerevole, ma non mancano anche quelli provenienti da paesi quali: Cina, Germania, Russia, Francia, Ecuador, Spagna, USA, Nigeria, Iran, Polonia, Regno Unito, Ucraina, Australia, Chile, Colombia, Bulgaria, Israele, Ruanda, e Paesi Bassi.
Una volta presentata la Giuria di Qualità e spiegato il funzionamento del voto del pubblico, si passa alla visione dei restanti 15 video, nonché finalisti, tra cui la Giuria di qualità ha individuato i vincitori.
Uno dietro l’altro si susseguono come in una corsa verso il podio. Le pupille degli spettatori si muovono scattanti tra le molteplici proiezioni della danza, i volti si illuminano di espressioni. Colori sgargianti, cieli plumbei, montaggi dinamici e musiche incalzanti modulano la nera scatola in cui il pubblico è immerso.
Una volta presentati tutti i video si può dare il via alla premiazione. Si procede partendo dal premio della rete decretato dal pubblico votante. Sul podio “Stormo Take 2” di Ruggero Romano che riceve ben 1017 voti, a seguire “6 Lati”di Irene Zoppelletto con 545 voti ed in fine “Sologram” di Cora Gasparotti e Giacomo Spaconi.
Ad imporsi significativamente in questa edizione è “1,2 and their cigs (3,4)” di Laura Carnevali. L’opera, oltre ad aggiudicarsi il Primo Premio della Giuria di Qualità, ottiene il Premio Speciale Z Generation Artistic Committee, e la Honourable Mention Quinzena de Danca de Almada.
Il linguaggio surreale a cui fa ricorso l’autrice in questa sua opera, racconta un mondo reale. Ridisegna gli aspetti più scontati della quotidianità attraverso una grammatica del corpo, capace di trasformare i caratteri, da tutti riconosciuti come conformi, in elementi simbolici.
A ricevere il Premio Speciale della Giuria – Best Storytelling sono, a pari merito, le opere “Polo” di Ilaria Bagarolo e “Nakładamy się” di Ewelina Węgiel.
A colpire di “Polo” è la sua raffinata fotografia e la narrazione che a tratti si mostra misteriosa ma efficace. “Nakładamy się” è invece la proiezione di una danza collettiva. Al di fuori di ogni logica narrativa prevale una certa libertà dove prevale l’influsso del Direct Cinema.
Il Premio Speciale della Giuria – Best Dance Animation va a “The Body” di Nika Zhukova e Rimma Gefen. Il sapiente dosaggio tra la stop-motion e la danza contraddistinguono questo lavoro nato e sviluppatosi attorno al tema del femminile.
La Menzione Speciale d’Onore, della Giuria Internazionale, e la Menzione Piemonte Movie sono invece assegnate a “Am I the lanscape?” di Noemi Piva. A ritirare il premio, in assenza dell’autrice, sono Sara Chinetti e Federica Siani, danzatrici che hanno preso parte al lavoro. L’opera in concorso è un’interessante racconto di un corpo che allo stesso tempo è casa e limite. La narrazione avviene attraverso una attenta e originale poetica visiva. La giovane coreografa indaga sul paradossale legame venutosi a creare tra le due concezioni del corpo, quali: punto sicuro e luogo impossibile.
La Menzione Speciale SOLOCOREOGRAFICO Solo Dance Festival va a “Absent Presence” di Giorgia Ponticello, da cui emerge un’astratto minimalismo capace di innescare nello spettatore una immaginazione priva di confini che tenda verso “quell’elemento altro” non visibile all’interno dell’inquadratura.
In fine la Menzione ZED Festival è stata assegnata a “Ticking”, lavoro d’animazione, di Lara Parisek.
La figura di una donna, resa attraverso la tecnica dell’animazione bidimensionale, abbandona l’iniziale monocromia fino a raggiungere una esplosione finale di colori.
Il pomeriggio dedicato alla premiazione è dunque stato particolarmente denso di performance ed emozioni. Dalle parole di chi ha preso parte ai vari momenti pomeridiani emerge quanto l’evento sia stato proficuo per sviluppare nuovi sguardi inerenti ai mutevoli discorsi della screen dance, in continua evoluzione insieme ai corpi danzanti. Si chiude così la prima parte del contest la ONE MINUTE – Z GENERATION. Il contest invece continuerà con la seconda sezione BEYOND ONE MINUTE grazie alla collaborazione con il ZED Festival internazionale di Videodanza di Bologna.
Michele Pecorino
La danza in 1 minuto è un progetto di COORPI Direzione artistica Lucia Carolina De Rienzo Curatore 1 Minute Competition – Z Generation Marco Di Pasquale Festival Manager Valeria Palma Social Media Manager Laura Cappelli Tecnologia Alessandro Grigiante, Cristiana Candellero
Con il sostegno di MiC – Direzione Generale per lo Spettacolo dal Vivo | Regione Piemonte | Fondazione CRT | TAP – Torino Arti Performative
In collaborazione con Piemonte Movie | Cro.Me. – Cronaca e Memoria dello Spettacolo | ZED Festival – Compagnia della Quarta | DAMS & CAM, Università degli Studi di Torino
In rete con Lavanderia a Vapore – Centro di Residenza per la Danza | Scenario Pubblico (Catania) | Fondazione Egri per la Danza (Torino) | Festival Mirabilia (Cuneo) | Lago Film Festival (Revine Lago – TV) | IperCorpo – Città di Ebla (Forlì) | Fuori Formato Stories We Dance – Augenblick (Genova) | Cam Cam Movimento Danza (Napoli) | CloseUp Festival (Crema) | Cinedans (Amsterdam – NL) | Tanzrauschen (Wuppertal – DE) | Choreoscope (Barcelona – SP) | Nudance Festival (Bratislava – SK) | Agite y Sirva (Città del Messico – MX) | Terre da Film Festival (Canelli – AT)
Media Partner DanzaDove – l’applicazione nazionale della danza | Ti Consiglio
La danza in 1 minuto è un’azione di PRO|D|ES Danza – Promozione Digitale Danza Estesa, progetto a cura di COORPI, CRO.ME – Cronaca e Memoria dello Spettacolo, Compagnia della Quarta, con il contributo del MiC – Ministero della Cultura – Direzione Generale Spettacolo
Dal 14 al 17 febbraio, la Lavanderia a Vapore ha ospitato una tappa di Diversità in scena, percorso di formazione tra Italia e Regno Unito curato da OrienteOccidente e Stopgap Dance Company e sostenuto dal British Council nell’ambito di International Collaboration Grant. Tutor del workshop, Giuseppe Comuniello (Al.Di.Qua Artists), Laura Jones e Cherie Brennan (Stopgap Dance Company). La tre-giorni sulle pratiche della danza e del teatro fisico era desintata sia ad artiste e artisti con ruoli di guide interessati ad ampliare il proprio bagaglio di competenze, sia a curiosi e amatori, con e senza disabilità. Il progetto si inscrive nel solco della linea strategica di Piemonte dal Vivo sull’accessibilità, in previsione di Carte Blanche Exchange, realizzato dal 22 al 26 maggio a Collegno, in collaborazione con la rete EDN – European Dancehouse Network, il collettivo Al.Di.Qua Artists e lo Spazio Kor di Asti.
Block notes di Asia Passerella
Asia Passerella – social media manager di Lavanderia a Vapore – traduce la propria esperienza formativa con Al.Di.Qua Artists e Stopgap Dance Company in un blocco di appunti digitale.
Moti gentili e segni viscerali di Eugenia Coscarella
Eugenia Coscarella – progettista per Lavanderia a Vapore e dramaturg di comunità – racconta attraverso la propria voce e quella di alcuni partecipanti al percorso il modo in cui i formatori abbiano saputo costruire un contesto abilitante, inscrivendo nei corpi un modo di creare e collaborare equo, inclusivo, capace di entrare e trasformare “sottopelle”.
Da esploratori ed esploratrici di silenzi con fragranza siamo entrati nel respiro.
Ascoltare, ascoltare e ancora ascoltare. In questa semplicità dimora la cura.
Benvenuto nella nostra casa, benvenuta. Cosa ti serve per stare bene qui?
Da questa domanda, cominciano i nostri quattro giorni di formazione condotti da Laura Jones e Cherie Brennan, co-direttrice artistica e artista del coinvolgimento della comunità di StopGap Dance Company, con il supporto di Lottie Vallis e la partecipazione di Giuseppe Comuniello – Al.Di.Qua. Artists che, insieme, portano avanti una leadership di artisti/e con disabilità.
Di cosa avete bisogno per stare bene qui?
La domanda apre al silenzio. Bisogna fermarsi e ascoltare. Scendo a trovare il mio respiro, cosa mi dice? Ognuno trova le parole per tradurre quel sussurro.
Con semplicità, partiamo dalle cose più basilari, come la necessità di sapere come è fatto lo spazio, dove trovare le cose che servono, a chi rivolgersi, per arrivare alle piccole profondità di ognuno. Dall’ascolto reciproco nasce il nostro access agreement, l’accordo sulle condizioni necessarie di tutti per stare bene insieme ed un luogo dove depositare in qualsiasi momento le nostre domande e i pensieri.
Ogni mattina inizia con una domanda che direttamente o indirettamente ci fa dichiarare bisogni, stati d’animo, intenzioni, desideri, obiettivi della giornata. Un check-in fondamentale per allenare l’ascolto individuale e di gruppo, il prendere parola, l’attenzione, il condividere, prendere e lasciare spazio. Accoglienza, dialogo, fare casa. Così le conduttrici creano le condizioni e un contesto abilitante per e con ciascun partecipante, guidando un gruppo intergenerazionale, composto da persone con e senza disabilità in un ricco processo creativo, utilizzando corpo, suoni, parole, immagini secondo i linguaggi della danza contemporanea e del teatro fisico. Con leggerezza e semplicità entrano nella profondità delle questioni che portano, non dibattendo sul tema, ma inscrivendo nei corpi un modo di creare e collaborare equo e inclusivo, sia nella danza che negli aspetti quotidiani del vivere, muovendo il cambio atteso dall’interno.
Benvenuto nella nostra casa, benvenuta.
Qui, le fragranze si moltiplicano, moti gentili e segni viscerali animano tutto ciò che abita sottopelle.
E adesso, esploratori ed esploratrici di silenzi, dite voi, cosa rimane?
Credits Ringrazio per il contributo alla realizzazione del podcast (in ordine di uscita): Edoardo Urso, Orazio Spagnolo, Claudia Loss, Ilaria Bagarolo, Maria Vozza, Valentina Roselli, Gianna Bettega, Massimiliano Iachini, Sara Aprile e Arianna Perrone.
Ringrazio Kahlil Gibran, perché attraverso le parole de Il profeta, ho potuto trovare le mie.
I blogger della redazione itinerante di We Speak Dance restituiscono il proprio sguardo su Un poyo rojo, in scena il 4 febbraio al Teatro Sociale di Valenza e il giorno successivo al Teatro Toselli di Cuneo.
Nello spogliatoio di una palestra due uomini si affrontano, quasi due galli da combattimento, si scrutano, si squadrano, si provocano, si seducono. È il racconto di un incontro d’amore tra danza, acrobatica e comicità. Un Poyo Rojo è una provocazione, un invito a ridere di noi stessi esplorando tutto il ventaglio delle possibilità fisiche e spirituali dell’essere umano.
di Alfonso Baron, Hermes Gaido, Luciano Rosso coreografia Luciano Rosso, Alfonso Baron regia Hermes Gaido interpreti Luciano Rosso e Alfonso Barón produzione Timbre 4 Buenos Aires, Carnezzeria srls
Tu non hai paura dei tuoi istinti? di Giorgia Borgioli
Siamo nello spogliatoio maschile di una palestra, ci sono due uomini e una radio.
I due si vedono, si incontrano, si conoscono, si orbitano attorno a lungo e, alla fine, si desiderano. I loro corpi oscillano tra la competizione e il desiderio, tra la fuga dai propri istinti e l’accettazione. Sembrano chiedersi: tu non hai paura dei tuoi istinti? E sembrano chiederlo anche al pubblico.
Uno di loro va alla radio e cambia canale.
Click.
Parla l’esponente di un partito politico piemontese.
Click.
La ricetta per le lasagne vegetariane.
Click.
Dentro il tempio di virilità dei giorni nostri loro si provocano, e l’attimo dopo si subiscono a vicenda, si sfidano e poi si alleano tra di loro, ma soprattutto con sé stessi. Si riappacificano con quella vocina dentro di sé che dice “è sbagliato”, che ciò che stanno sentendo non si può sentire, che loro sono sbagliati, da soli e insieme.
La scena è un ring, dove una lotta continua tra il soffocamento degli impulsi e la loro liberazione coinvolge il pubblico, fino a divenire danza.
Click.
Le notizie del giorno.
Click.
La hit estiva della scorsa estate.
Click.
I risultati della partita di campionato.
Click.
Ora invece la radio trasmette una canzone dalle note dolci, una melodia inequivocabile d’amore.
Nessun click.
La canzone va avanti e continua fino alla fine dello spettacolo.
È lei è la canzone che mette d’accordo tutti: sul palco, in platea, e ovunque.
Sguardi sulla vanità di Zoe Guindani
Inizia lo spettacolo.
Un armadietto di ferro, una panca, una radio; siamo nel tempio della mascolinità, in un luogo anomalo per una rappresentazione teatrale: una palestra.
Questa apparente nemesi del teatro diventa il palcoscenico perfetto per la crisi identitaria di un uomo e della sua mascolinità.
Ma andiamo con ordine.
Due uomini, una palestra; uno seduce l’altro e l’altro lotta con le sue pulsioni, per sfociare infine in un rosso, rossissimo bacio.
La storia finisce qui, ma lo spettacolo è concentrico: i danzatori continuano a girare in tondo, come attratti da un magnete che in base a come lo si posizioni attrae e respinge dal suo centro: la sessualità.
I corpi di Alfonso Barón e Luciano Rosso, esplosivi, grotteschi e malleabili, esplorano le possibilità dell’attrazione e della repulsione senza vergogna e senza barriere, attraverso prima di tutto, l’animalità.
Da uccelli che non riescono a volare a polli sgraziati sino a pantere sinuose, sembra che gli animali, con i loro movimenti istintivi, nascondano la chiave per capire le profondità umane. Quando i due uomini raggiungono il massimo della tensione, emotiva e sessuale, ecco spuntare alette rachitiche e colli sgraziati: si trasformano in polli.
Lo spettacolo, col suo sguardo divertito sulla vanità maschile, esplora con ironia il confine sottile tra machismo e omosessualità.
Ma se il pubblico è parte integrante di un’opera d’arte, in un paese ancora cattolico e ancora profondamente scandalizzabile come l’Italia, lo spettacolo è un perfetto metro di studio del pubblico italiano.
In un paese in cui la risata è da sempre il modo di esorcizzare la paura, le risa, liberatorie e fragorose, su due uomini che sono uno attratto dall’altro, lungi dal dimostrare una comprensione delle contraddizioni della natura umana, dimostravano un nervosismo di fondo.
Non tanto riguardo l’omosessualità, ma riguardo la sessualità stessa.
Ma se ciò di cui si parla non è risibile, non è grottesco ed esorcizzabile, allora cala un silenzio tombale. Davanti a veri gemiti e a movimenti sinuosi, il pubblico pareva ghiacciato, col fiato sospeso nell’attesa di un risvolto comico per liberarsi del peso che li opprimeva.
Ma un Poyo Rojo nasce in Argentina, in un contesto sociale preciso, quello di un discusso progetto di legge per il matrimonio omosessuale. Nasce come una ribellione, un tentativo di affrontare il tema con leggerezza, di normalizzare i corpi, di amarli anche nelle loro brutture, di giocarvi e di ridervi (lo spettacolo è infatti pieno di sputi, schiaffeggi, risa, urla, scatarrate e sniffate di sudore) e in ciò lo spettacolo riesce perfettamente, ed è lodevole nella sua vivacità.
Credo vi sia l’urgenza di recuperare la valenza morale e sociale di una danza ridicola, che sappia ridere di sé stessa e accettare l’essere umano nella sua totalità di essere in divenire: talvolta incantevole, talvolta irrimediabilmente buffo.
We are so pop! di Eleonora Natilii
Riscaldamento.
It’s getting hot in here!
Siamo uguali, io e te.
Tik Tok.
Chi é?
Sono io, il vuoto. Passavo di qui… Ti va un selfie? Vengo sempre bene.
Hey, relax man.
Sono Clint. Clint Eastwood.
È un po’ difficile, faticosa, tutta questa follia.
Aspe’ ché mi trasformo un attimo.
Aspetta.
Tik Tok.
Chi è?
Fai un balletto.
Fai lo scemino.
Fai un ballettino sciocchino.
Fa un po’ paura, tutta questa follia.
Yeah yeah!
Yo, man!
YEAH!
Tendu.
Allongé.
Bird.
Bird?
Sì, bird.
Il Lago dei Polli.
RELEVÉ!
Sto avendo qualche difficoltà.
Ti spiace stringere un po’ meglio il nodo?
Alla chiappa?
Alla gola.
Facciamo la chiappa, va.
Devo bere…
Accendi la radio ché c’è il derby Inter – Milan.
L’asciugamano mio è quello bianco, quello tuo è quello rosso.
Rojo.
Hey man, ce l’hai una sizza?
Turn up the music, man! Hey, man! Woohoo!
Sono io quello lì allo specchio?
No… quello lì è il vuoto. Tu sei quello dietro.
Forse dovrei smettere di fumare. Magari domani.
Si sta asciugando il sudore sulla schiena. La canottiera di Rorschach.
La canotta tua è bianca, la mia è quella rossa.
Vuoi entrare sotto la luce, nella canotta, nella mia stanza?
È difficile staccarsi, in questa danza.
Com’è divertente, tutta questa follia.
We are so pop!
Come siamo lirici.
Il desiderio è circolare: senza non si può stare.
Sempre, sempre, si desidera qualcosa sempre.
Una storia d’amore.
Pensieri sconnessi e radio per Un poyo rojo, l’Argentina e Cuneo di Mirco Spadaro
«En un vestuario vacío, dos hombres juegan con el movimiento, una radio analógica y unos diminutos pantalones cortos. Los cuerpos atléticos de Luciano Rosso y Alfonso Barón pasan con fluidez de la lucha a la danza, de la acrobacia a la comedia física en una irresistible distorsión de las expectativas de la virilidad. […] Naif, kitch, poncif»; è il 34’ minuto; la radio sfiata su di noi che siamo sotto il palco e stiamo lì a osservare Alfonso Baròn e Luciano Rosso. Uno è seduto su una panca: fuma centordici sigarette e guarda l’altro. L’altro si osserva allo specchio. GOOOOOOOOL! GOOOOOOL! 1-0 INTER, LAUTARO!! Angolo di Calhanoglu dalla sinistra, il Toro colpisce di testa: deviazione di Kjaer, Tatarusanu battuto! Anche i due uomini nello spogliatoio scenografico di fronte a noi applaudono; poi cambiano stazione: ora c’è della musica dance. È una radio vera, ci spiegheranno un po’ in italiano e un po’ no alla fine dello spettacolo: è una radio vera di quello che sta succedendo nel mondo attorno a noi, ora, e al contempo, sul palco, la radio vera di uno spettacolo che accade da 14 anni sui palchi del mondo.
Progetto nato nel 2008, inizialmente dalla mente di Luciano Rosso e Nicolás Poggi, un Poyo Rojo non usa parole: non conosce barriere linguistiche, ma non usa nemmeno musica, almeno non nel senso più convenzionale del termine; dalla buffoneria di Tom e Jerry alla disciplina marziale della marcia soldatesca, sono le espressioni, i movimenti scomposti, mimetici e didascalici fin quasi all’eccesso nel loro voler essere imitazione della realtà, il filo, un poco rosso, della competitività virile e machista che diventa, pian piano, amore e sensualità. Complicità, seduzione, diffidenza, ironia, seduzione e tanta, tanta immaginazione. Il pubblico sugli spalti ride durante l’esibizione; non vedevo una folla a teatro così tanto divertita da tempo. La ragazza sulla poltroncina rossa di fianco alla mia si sganascia; alla fine si alzerà in piedi e applaudirà a piene mani per interi minuti.
E poi c’è quella radio che viene accesa circa a metà della performance; sintonizzata sempre sull’emittente locale del momento e della città dove si trova il duo; la chiamano “drammaturgia del caso”. Un Poyo Rojo continua ancora oggi, che è il 2023, e fino ad qui ha visitato paesi di differenti continenti, dall’Uruguay alla Bolivia, dalla Germania all’Italia, dalla Francia a Nuova Caleidonia.
Mentre siamo sulla navetta che torniamo verso Torino ne parliamo, di un Poyo Rojo; io ho una certa sete. Da stamattina sono in piedi con un solo caffè, uno lungo, e tanto, troppo lavoro arretrato; ascolto più che parlare; appoggiato al finestrino osservo Cuneo che scompare e le colline oltre il guard rail dell’autostrada. La maggior parte di noi sono entusiaste; lo spettacolo ci è piaciuto tanto. Abbiamo però dei dubbi; quello che abbiamo visto ci è piaciuto, sì, ma alcune cose ce le domandiamo, alcune cose le abbiamo trovate, riportate al 2023, in un certo qual modo “vecchie”, in un certo qual modo, ecco, fuori tempo massimo. M’immagino a Ciudanza, a Buenos Aires, a vedere una delle prime rappresentazioni: sicuramente sarebbe stato diverso.
Se si apre Wikipedia, che non è la migliore fonte d’informazione ma sicuramente una delle più usate, come prima alla pagina “Diritti LGBT in Argentina” si legge questa frase: “I diritti di lesbiche, gay, bisessuali e transgender (LGBT) in Argentina sono tra i più avanzati al mondo”. Il 15 luglio del 2010, decimo paese nel mondo, il primo in America Latina, l’Argentina ha legalizzato il matrimonio omosessuale; quest’informazione la ricordo: anche da noi se n’era parlato molto. Non solo matrimoni, comunque: i suoi legislatori, dell’Argentina intendo, che seguono dal 1983 una transizione nazionale verso la democrazia, hanno scritto e approvato nel 2012 una legge sull’identità di genere che consente alle persone di cambiare il loro genere sessuale, legalmente, senza dover prima affrontare barriere di terapia ormonale, chirurgia di riassegnazione del sesso o diagnosi psichiatriche di sorta; l’U.S. News & World Report del 4 aprile 2016 di Kamilia Lahrichi e Leo La Valle possono essere un ottimo approfondimento a proposito, così come i numerosi e ben scritti articoli della BBC Mundo. “Siempre hay un efecto dominó, de imitación, tal como aquí se aprobó luego de que se hiciera en España”, disse al tempo César Cigliutti, presidente della Comunidad Homosexual Argentina. Era il 15 luglio 2010; c’è sempre un effetto domino, di imitazione. Mi convinco che sia in fondo questo il grande sentimento che rende ancora tanto attuale un Poyo Rojo; che sicuramente anche lui invecchia, che certi stereotipi sul palco possono essere oggi stati levigati, in un certo qual modo riscritti, ma il messaggio, la sensualità e quella grande dichiarazione, seria e divertente, che certe cose sono umane e non hanno una lingua da capire ma solo dei gesti universali, quello non invecchia mai, non importa la musica della tua radio. C’è sempre un effetto domino, de imitación.
Un gioco a due, a fare sul serio di Maria Rosaria Visone
Esiste un’idea comune, quasi conclamata, per la quale aprire le porte di uno spogliatoio maschile vuol dire entrare in un tempio di esaltazione della virilità e della mascolinità. Come se in questi luoghi non siano contemplate altre forme, idee o generi diversi da quello puramente maschile, riducendosi a mere ipotesi irrilevanti. E da donna vivo nel dubbio, sperando davvero non sia così, che esista ancora spazio per vivere liberamente la propria identità. Eppure, entrare al Toselli di Cuneo questa prima domenica di febbraio ha significato esattamente questo: catapultarmi in una circostanza a me distante, percepire quella latente tossicità che spesso ci circonda, distruttibile solo se si procede senza troppe ringhiere sul cuore.
Da uno dei palchetti centrali del teatro, i miei occhi si sono affacciati su un ambiente riconoscibile, comune, composto di pochi elementi: una panca in legno, degli armadietti grigi, qualche bottiglietta d’acqua, una radio portatile. Il minimo indispensabile per annunciare un “Noi siamo qui. In un semplice spogliatoio per uomini, nel quotidiano di un presente qualsiasi. Inaspettatamente, proprio qui accadrà qualcosa”. Ancora con le luci accese in sala, un semibuio sul palcoscenico mostra due uomini che si riscaldano, ognuno con modi e tempi propri, come se il pubblico non fosse lì ad osservarli. Poi, insieme avanzano verso il proscenio con una presenza fisica inspiegabile, attirando l’attenzione della platea e iniziando un sincronismo gestuale: parte così Un poyo rojo, uno spettacolo imprevedibile, un duello senza troppe regole che, con trovate geniali e inaspettate, incontra lo sguardo divertito e incantato del pubblico.
In scena, i due interpreti Luciano Rosso e Alfonso Barón, con la regia totalmente fuori dagli schemi di Hermes Gaido, sono una potenza estrema. I loro corpi flessibili, acrobatici, guizzanti, esplorano ogni angolo del palcoscenico: a mo’ di sfida giocosa, proprio come dei bambini, indagano possibilità fisiche e mimiche per la mente umana impensabili. E sono queste “probabili impossibilità”, questi continui estremismi fisici, a far sorridere il pubblico. Intermittenti, laute risate invadono la platea, raggiungendo il palco e caricando sempre più la partita tra i due interpreti. Se ne rallegrano, senza mai abbassare la guardia: sono irrefrenabili. Si alternano nella loro disputa immaginaria, che vive tra il comico e il conflittuale. È come un dialogo muto, un passaggio di palla sincero, privo di superbia o pretese di vittoria.
Durante la performance, la coppia sconosciuta comincia a delinearsi. Spuntano fuori le insicurezze di uno, la reticenza dell’altro. Poi la voglia di entrambi, l’incontro e la complicità dei loro corpi. Intanto la radio, sintonizzata dal vivo, accompagna e riflette gli animi dei due interpreti. La musica, le voci delle speakers e dei dibattiti radiofonici attraversano i loro corpi, facendo procedere quella lotta interiore infinita tra ciò che si vuole e ciò che non si vuole mostrare. In balìa del giudizio, della paura, tra le mura di uno spogliatoio qualunque. Eppure, è chiaro: sono corpi desiderosi di aversi, di spaccare tutto, anche gli stereotipi sociali.
Viene da chiedersi qual è stato il momento esatto in cui tutto è cominciato.
Quando è che il gioco è passato a non essere più un gioco.
E chi ha vinto la partita?
C’è mai stata davvero una sfida?
Tra le mani, nessuna risposta.
Resta solo il sapore di un incontro nascosto, a luci rosse.
Un momento intimo, che rimane negli occhi di chi l’ha sbirciato.
E trovare spiegazioni passa in secondo piano: è proprio vero, a teatro si gioca a fare sul serio.
L’opera electrica /ecosi’stɛma/ – in residenza alla Lavanderia a Vapore fino allo scorso 22 febbraio – è un’indagine performativa sulla relazione fra tre universi: il vegetale, il tecnologico e l’umano. La fase di ricerca a Collegno di Flavia Zaganelli e Cecilia Stacchiotti (in arte Ceci Stuck) precede il debutto del lavoro, programmato per il 25 febbraio allo Spazio Kor di Asti, all’interno della stagione NODO PIANO curata da Chiara Bersani e Giulia Traversi. Lasciamo la parola alla danzatrice e alla compositrice elettronica per esplorare alcuni passaggi della creazione.
Da dove deriva la scelta di servirsi di un vasto immaginario vegetale? Quale funzione svolgono, in altri termini, le piante in questa vostra creazione?
FLAVIA: La ricerca prende avvio proprio da una grande fascinazione per il mondo vegetale; un’attrazione sostenuta da letture approfondite, senza tuttavia una vera e propria competenza scientifica in materia. Il nostro interesse precipuo riguarda la creazione di una relazione a tre, tra corpo umano, elemento vegetale e dimensione tecnologica (vale a dire, tutto l’apparato che usa Cecilia per produrre suono a partire dagli impulsi elettrici sprigionati dalle piante). Le piante, dunque, giocano un ruolo di fondamentale importanza. Il tentativo è “stare” all’interno di un meccanismo di relazioni circolari, anziché piramidali: non vi è mai, insomma, un elemento che prevalga, sebbene – a seconda dei momenti – l’uno o l’altro sembri imporsi. Uno dei meccanismi principali del lavoro è l’utilizzo di un dispositivo, o meglio di un circuito arduino di biodata sonification chiamato Midi Sprout, che grazie a dei sensori apposti sulle foglie (simili a quelli utilizzati negli elettrocardiogrammi) recepisce il passaggio di corrente. La “pianta madre” è collegata alle altre due attraverso un filo di rame, che sbuca dal terreno della prima, compie un giro attorno alla seconda e si immerge infine nelle radici dell’ultima: questo percorso amplifica la trasduzione del passaggio di corrente, potenziando quello già esistente per natura. A livello coreografico, cerco di attivare una relazione anche con il corpo. Un corpo – ça va sans dire – il più possibile aperto, rilassato, fedele a quanto percepisco e sento nel preciso istante. Un corpo, insomma, che sta in ascolto, principalmente del sé. All’inizio della ricerca entravo in questo setting rimanendo molto fuori da me stessa, proiettandomi nell’ascolto del campo elettrico esterno. Pian piano però, lavorando su questo aspetto, mi è parso di capire che abbia ben più senso ascoltarsi, per potersi poi virtuosamente aprire alla relazione, di qualunque tipo essa sia. Il dialogo si sviluppa attraverso degli stati e dei gradi di pratica: il primo è il tentativo di aprire il corpo in una situazione di rilascio quasi meditativo. Dopodiché Cecilia si posiziona dietro il mixer e parte la musica. Io, nel frattempo, inizio a esplorare lo spazio, istituendo un dialogo che ha più a che vedere con la mimesi, intesa non tanto come imitazione della forma delle piante (operazione che risulterebbe, in effetti, piuttosto banale), bensì in quanto approccio, riflesso umano autentico. Capita spesso, infatti, pur non conoscendo una persona, di prenderne – quasi istintivamente – le forme, il modo di esprimersi, di gesticolare, di muoversi. Con il tempo ho iniziato ad accettare questa dinamica, sebbene la volessi eliminare in principio perché mi sembrava eccessiva, didascalica. Invece ora la sto assorbendo. Tornando ai momenti dello spettacolo, poco per volta entra – in maniera sempre più preponderante – il suono e quindi anche l’elemento elettrico prodotto dalle piante. Io continuo, attraverso il corpo, a rimanere in ascolto di tutto ciò che avviene a livello sonoro, visivo e fisico dentro di me. E si crea così un pattern, una sorta di 8 che descrivo danzando attorno alle piante. Ed è quello il vero momento di dialogo: lì resto nella mia condizione di movimento, ora spontanea, ora volitiva, ora morbida. Una duplice condizione di ricezione ed emissione.
Nella scheda artistica sono chiarite puntualmente le piante da utilizzare, che assurgono al rango di protagoniste nei crediti dello spettacolo.
FLAVIA: Esatto. Le piante richieste sono appunto queste [le indica sulla scena]. Poi, naturalmente, ogni volta presentano forme diverse, quindi muta anche la relazione che si va instaurare tra me e loro. A destra vedete la Monstera Deliciosa, che appartiene alla famiglia dei rododendri, le prime piante a essere utilizzate in esperimenti con sensori già dagli anni Cinquanta-Sessanta (erano quelli per brevettare le macchine della verità). Questo gruppo vegetale risponde molto bene agli stimoli perché possiede un fogliame molto largo; pertanto si osserva un copioso passaggio di energia, di elettricità, non troppo compressa come invece avviene nelle piante grasse. Sono insomma degli ottimi trasduttori. Per le altre due – il Ficus Lyrata e l’Eugenia Myrtifolia – il discorso è pressoché identico: anch’esse mostrano foglie abbondanti e assai resistenti. Sono tutte e tre – peraltro – piante da interno, abituate a quegli stress necessariamente subiti per via del trasferimento da un luogo all’altro. Sono tenaci, forti. La scelta dipende anche da ragioni di ordine estetico, legate al mercato delle piante. Il Ficus, l’Eugenia e la Monstera sono infatti piuttosto comuni da trovare in uffici e negozi, essendo piante d’arredo, molto gradevoli alla vista. Mi stuzzicava quindi l’idea di utilizzarle per sottolineare l’enorme carica vitale, spesso data per scontata, di soggetti comuni, visibili ovunque.
Passando invece al corpo sonoro?
CECILIA: Nel primo segmento dell’opera-installazione, il mio ruolo è mettere in risalto, in evidenza, attraverso il suono quell’energia che si genera nello spazio. Inizialmente è un piccolissimo microfono, una capsula, a realizzare tale obiettivo: lo muovo io un po’ nell’aria, mettendolo in risonanza. Attraverso degli altoparlanti si crea così un feedback, modulato all’occorrenza dal vivo. Questo già inizia a dar vita a una sorta di tensione. La pianta reagisce frattanto al suono, che la attiva, la mette in moto. Così come mette in moto anche Flavia, la quale comincia nell’ecosistema delimitato dai vasi. In origine avevamo assegnato dei suoni predeterminati a ciascuna pianta. Abbiamo poi virato su altre soluzioni: di fatto, diamo alla pianta la possibilità di scegliere, a seconda degli impulsi che emana, tra specifiche parti di file, che non sono altro che le registrazioni dal vivo realizzate sulla scena. In poche parole, è la pianta che “suona le parti che vuole suonare”. Ci sono poi passaggi in cui Flavia rivolge alla pianta delle parole tramite il microfono e la pianta – specularmente – decide come rileggerle. Nel finale, invece, il corpus vegetale suona un synth producendo una sonorità più violenta, in un crescendo, in una climax, in un’esplosione di elettricità.
Se ho ben capito, quindi, attraverso i sensori voi leggete gli impulsi elettrici che la pianta possiede e che vengono anche provocati da stimolazioni sonore o interazioni con il tuo corpo, giusto? Si crea così un dialogo, amplificato dai tre piani simultanei della composizione.
FLAVIA: Sì, a fungere da collante è il campo elettrico. Nella pianta, di suo, già scorre un’energia vitale, così come accade all’interno di ciascun corpo umano. Chiaramente in uno spazio fisico in cui si trovino delle persone – a maggior ragione se queste si muovono – si altera la carica energetica ed elettrica dell’ambiente, insieme a quella della pianta stessa. Quest’ultima diventa così un trasduttore, un trasmettitore, di quanto percepisco. Tanto più in un teatro, dove si attivano luci e molteplici fonti di calore.
Di conseguenza, a ogni “replica” lo spettacolo è diverso.
CECILIA: Esatto. Infatti la sfida grande di questo lavoro è il restare il più possibile sincere alla relazione che si instaura nel qui e nell’ora. Le piante infatti, da parte loro, rispondono in maniera sempre autentica e quindi imprevedibile.
electrica /ecosi’stɛma/ CORPO VEGETALE Monstera Deliciosa, Ficus Lyrata e Eugenia Myrtifolia CORPO TECNOLOGICO Sintetizzatore analogico, Biodata sonification Device, PC, Ableton Live CORPO UMANO FLAVIA ZAGANELLI // concept, ricerca, creazione, danza, voce CECILIA STACCHIOTTI // ricerca e suono FABRIZIO PIRO // disegno luci ELENA MATTIOLI – LELE MARCOJANNI // video electrica /ecosi’stɛma/ è stato ospitato in residenza da: Santarcangelo Festival, DAS Dispositivo Arti Sperimentali, Fienile Fluò con il sostegno di h(abita)t – Rete di Spazi per la Danza in collaborazione con Crexida, Paleotto11.NO TITLE nella versione EXPANDED ha vinto il Bando Abitante 2021 ed è stato ospitato in residenza da P.I.A. Palazzina Indiano Arte e Corniolo Art Platform, dando vita ad INVISIBILIA, progetto realizzato con il sostegno di Centro Nazionale di Produzione della Danza Virgilio Sieni e di Fondazione CR Firenze
Sabato 11 febbraio, all’interno della cornice di onLive Campus, Kamilia Kard – artista e docente con base a Milano – ha lavorato con alcuni danzatori per sviluppare un pattern coreografico tradotto poi in algoritmo, all’interno dello spazio digitale dell’azione performativa da lei firmata, Toxic Garden – Dance Dance Dance. L’eponimo e venefico giardino – nato da una fase di ricerca avviata presso la Lavanderia a Vapore di Collegno a settembre scorso, nell’ambito delle Residenze Digitali – aveva trovato un primo debutto online tra l’8 e il 10 novembre (scopri di più).
La ricerca di Kard, dottoressa in Digital Humanities all’Università di Genova e docente di Comunicazione Multimediale a Milano e a Carrara, esplora il modo in cui l’iperconnettività e le nuove forme di comunicazione online modifichino e influenzino la percezione del corpo umano, della gestualità, dei sentimenti e delle emozioni. Dal 2011, i suoi lavori vengono spesso esposti presso gallerie, festival e istituzioni di risonanza nazionale e internazionale. La sua ultima creazione, Toxic Garden – Dance Dance Dance, si configura come una serie di performance partecipative online ambientate in un metaverso creato ad hoc su Roblox, popolarissimo massively multiplayer online game (MMO). I partecipanti, attraverso i propri avatar, sono coinvolti in balli di gruppo sincronizzati, su coreografie che combinano passi di danza registrati in motion capture, in collaborazione con performer, e tratti da videogiochi famosi. Il progetto mira alla costituzione di una comunità temporanea i cui membri siano invitati a riflettere su questioni di identità, genere e inclusività nell’ambiente virtuale di Roblox, uno dei principali luoghi virtuali di incontro e socializzazione per gli adolescenti. Attraverso la sincronizzazione del movimento e l’utilizzo di skin speciali disegnate per l’occasione, la danza collettiva diventa un rituale di aggregazione che sprona a liberarsi del fardello del proprio alter-ego virtuale.
Kamilia, quale ruolo svolge, nell’ambiente virtuale da te creato, l’immaginario vegetale?
Parlando di rapporti pericolosi, volevo dar vita a una realtà che rappresentasse al meglio, in modo naturalmente metaforico, questo intreccio di relazioni. Di conseguenza ho pensato a un “florilegio” di piante velenose, a un giardino composto da presenze vegetali che fossero comunque a me comuni, familiari. Non ho scelto, in altre parole, piante tropicali o esotiche, ma figure di cui avessi avuto esperienza diretta, visiva, tattile. Per esempio, la cicuta, che spesso si può osservare nei campi, in grande quantità. Questo perché, come le piante invadono il nostro campo percettivo senza quasi rendercene conto, così le relazioni che viviamo in maniera tossica ci scivolano addosso, automaticamente, blandamente. Certo, a volte lasciano traccia in maniera più forte: dipende dal contesto in cui germinano o dal coefficiente di investimento emotivo (se si tratta cioè di rapporti sentimentali, d’amicizia oppure professionali). Ho tentato quindi di astrarre, o meglio di metaforizzare, questa necessità tramite una flora venefica: i nostri comportamenti diventano in sostanza i “residui clorofilliani” di una sorta di ancestrale ego discendente a sua volta dalle piante, prima forma di organismo vivente. Rimasugli vegetali che ci portiamo dietro e che sfoderiamo all’occorrenza, quando ci sentiamo attaccati.
Proviamo a fare un passo indietro. Da quali suggestioni nasce il lavoro?
Tutto parte da un’osservazione. Durante i mesi di pandemia, ho tenuto dei corsi di programmazione su Roblox – piattaforma che ricalca la struttura di un metaverso – per un gruppo di 6-8 ragazzine tra i 9 e gli 11 anni. Era per loro uno spazio e un tempo collettivo per reagire all’isolamento domestico. Alla prima ora di spiegazione seguiva una seconda ora di gioco. Questo, insomma, il pretesto. Le guardavo giocare, senza un particolare scopo. Ma spesso gli spunti creativi arrivano da sé. Si scervellavano, si struggevano, si lambiccavano letteralmente il cervello per trovare outfit che fossero idonei alle rispettive identità digitali. Al di là di tutta la sub-cultura legata a Roblox, mi impressionò – durante il game play – notare come spesso molte di loro uscivano incontrando determinati avatar, qualificati come “cattivi”. Ho avuto modo di veder insorgere e svilupparsi in quell’ambiente atteggiamenti tossici. Da lì è discesa tutta una ricerca specifica sul gaming. E ho scoperto che i giochi più utilizzati, in particolare da un’utenza di giovani ragazze, erano quelli di danza sincronizzata collettiva, molto entertaining e potentemente comunicativi. L’elemento è poi permasto in Dance Dance Dance. Lo spettatore può infatti chattare online, interagire: compare la classica nuvoletta e puoi conversare con un altro avatar. L’elemento di comunicazione nei videogiochi si è sviluppato tantissimo, specie nei multiplayer.
La chat, quindi, come ulteriore metafora di relazione.
Sì, o quantomeno metafora di un’osservazione. Osservazione del modo in cui si sviluppa una relazione (tossica e non) all’interno di un metaverso e di come l’avatar riesca a influire sulla percezione dell’altro.
Nelle nuove tecnologie tu rintracci il tuo “spazio d’elezione“: hortus conclusus o Eden della ricerca performativa?
Io utilizzo molto spesso le nuove tecnologie per esprimere o sviluppare una ricerca in atto. Mi danno l’opportunità di inserire all’interno dei miei lavori molteplici piani, argomenti. Mi viene… naturale. Si celano nel digitale molteplici risorse: non a caso me ne servo principale medium espressivo, talvolta ibridandolo con forme tradizionali. Talvolta la “digitalità” pertiene al processo, talaltra all’esperienza. Dipende da ciò che voglio dire, comunicare. In alcuni momenti del mio percorso ho sfruttato l’ambiente del videogioco – pensiamo non solo all’ultima creazione ma anche a Loading Instructions (Mansplaining) del 2021 -, in altri la stampa 3D, che genera una scultura, un oggetto tangibile. Mentre nel primo caso il digitale impatta sulla dinamica fruitiva, nel secondo diviene elemento di una più articolata scrittura della scena, ma la liturgia spettatoriale resta consueta. Dipende da quanto desidero che il lavoro sia immersivo: con la VR la penetrazione dello sguardo muta tantissimo; con Roblox, invece, è l’interattività ad essere altissima. Dipende – come dicevo – da quanto voglio coinvolgere il mio interlocutore.
Michele Pecorino, blogger della redazione itinerante di We Speak Dance, ha visto per noi al Teatro Municipale di Casale Monferrato, lo scorso 25 gennaio, la prima nazionale di U(r)topias, concept e coreografia della greca Patricia Apergi per la Aerites Dance Company.
La parola U(r)topias deriva dal greco e significa “non luogo”. Il prefisso “Ur” – ‘antico, primitivo, prototipo’ – simboleggia il percorso per la definizione di una nuova utopia, che rivisita la nostra storia. Che tipo di utopie dobbiamo inventare e costruire nel XXI secolo? U(r)topias sono l’immaginario e i luoghi ideali dove una società e comunità può rintracciare uno stile di vita perfetto, imparando dai fatti della storia e rileggendola. Questo concetto è connesso con l’idea coreografica di una caduta, quella che Patricia Apergi ama anzi definire l’”utopia della caduta”. La sua ricerca si basa sul momento in cui una persona perde il controllo. Il finale è prevedibile per gravità. Ma che cosa accadrebbe se cercassimo di cambiarlo? Se affrontassimo questo movimento in modo non logico? È una maniera per suggerire a una nuova rivoluzione, una nuova resistenza o un nuovo modo di cadere e fallire che potrebbe simboleggiare una grande vittoria.
concept e coreografia Patricia Apergi drammaturgia Roberto Fratini Serafide musica Dimitris Kamarotos set design Dimitis Nasiakos light design Nikos Vlasopoulos costumi Irene Georgakila assistente coreografia Emmanouela Sakellari danzatori Sevasti Zafeira, Fuerza Negra, Giannis Economidis, Kostas Phoenix, Sofia Pouchtou, Haris Chatziandreou, Ilias Chatzigeorgiou produzione Techni choros theatre company, Aerites Dance Company distribuzione Plan B – Creative Agency for Performing Arts Hamburg *The piece was funded by the Greek Ministry of Culture and Sports
Il suono riecheggia veloce, quasi come una rapida scossa. L’azione che prima appariva lenta, non fa che rivelarsi in tutto il suo repentino capovolgimento. Un evolversi improvviso che lo spettatore non si sarebbe aspettato con così tanta rapidità.
In tal modo inizia U(r)topias, l’ultimo lavoro della coreografa greca Patricia Apergi, che vede la sua prima nazionale italiana, presso il teatro comunale di Casale Monferrato.
Tutto ha inizio quando, in sala, le luci sono ancora accese. Qualcuno, come di consueto, sta ancora scattando le ultime foto da aggiungere alle centinaia già presenti nei propri dispositivi. Da qualche altra parte, tra le poltrone color porpora, qualcun altro si mette in posa alla ricerca dell’ennesimo scatto che possa dirsi degno di apparire sui personali canali social. Mentre tutto ciò avviene, accompagnato dalle aspre consonanze di un chiacchiericcio di sottofondo, sul palco fanno la loro comparsa sette danzatori.
L’azione si evolve in una rapida caduta. I corpi rovinano inevitabilmente sulle tavole del palcoscenico. Proprio sul proscenio. Quasi a contatto con quel pubblico in balia di sconosciuti processi cognitivi. Nessuno di essi si abbandona, però, ad un completo rilassarsi dei muscoli. La tensione attanaglia quei corpi, li rende rigidi, statici o meglio statuari. Nella mente un balenare continuo di infinite immagini, poi un attimo di quiete. I corpi in scena, sembrano ripercorrere le ieratiche e bronzee forme di colossi protoclassici. I volti, le mani, gli sguardi, gli arti sono carichi di vibrazioni interne che si propagano impercettibilmente e in continuo equilibrio.
Il pubblico assistendo a ciò velocizza le proprie azioni, cercando di portarle al termine nel minor tempo possibile. Il ciangottio sembra spegnersi, riservandosi ancora qualche residuo refolo. Dalle torbide acque di un ricordo offuscato, sembrerebbero riaffiorare delle parole indefinite. Le bocche dei danzatori appaiono sigillate, eppure qualcosa si è sentito. Qualche sibilo, qualche nota si è infranta contro una articolazione incompleta di lettere. Un suono che, in relazione con ciò che avviene, viene percepito armonicamente. Un baluginio di poesia, un significante privo del suo significato. Quel linguaggio, assemblato mediante sconnesse parole e fonemi, dona alla scena una forte componente sonoro-espressiva.
Finalmente le luci si abbassano. I danzatori si sollevano dalle loro posizioni e in un rapido divenire si mostrano in una ulteriore caduta e poi un’altra ancora. La dissoluzione fisica, assurgendo a mezzo espressivo centrale e conduttore, veicola una visione dove nessun passato è rigettato. Nessun tentativo trascorso, tantomeno la memoria del corpo sono rifiutati. Nella ripetizione ogni sibilare dei corpi danzanti, si arricchisce. La scena si tinge di una intensa azione che avviene mediante un linguaggio del corpo codificato, solido, ma che si scompone per comprendersi.
Il gesto e il movimento coreografico si intersecano in uno stretto contatto con i codici più vari. I costumi, dai colori terrigni, accentuano ancora di più quel senso di caduta frammentaria, mostrandone le viscere. La prossemica dei corpi non fa altro che indicare qualcos’altro che esiste in quell’oltre possibile, ma sconosciuto perché mai indagato.
U(r)topias vede la sua epifania (non a caso ricorro a questo termine derivante dal greco ἐπιϕάνεια, ovvero manifestazione) nel 2021, anno in cui ricorre il duecentesimo anniversario dall’inizio della guerra d’indipendenza greca.
Rivoluzione che, con il sacrificio di numerosi civili, porterà all’ affrancamento dall’Impero ottomano e nel 1832 alla relativa nascita del regno di Grecia.
La coreografa indaga su cosa voglia essere un’Utopia contemporanea, e come questa possa essere possibile. Lo fa attraverso i corpi, attraverso lo spazio che si scompone per poi ricostruirsi tendendo ad indirizzarsi verso multiple direzioni.
Per fare ciò entra all’interno di un rapporto dialettico tra memoria e storia. Il legame con il passato è innegabile. La riflessione filosofica, assai consapevole, è del tutto presente in Arpegi, data anche e principalmente dalla formazione speculativa che ha alle spalle.
Da una Utopia si Passa a una U(r)topia. Il termine utopia deve la sua origine alla penna di Thomas More. Il filosofo inglese lo conierà nel 1512, appositamente come nome di un’isola immaginaria dove si svolgerà la vicenda del suo romanzo dall’interminabile titolo: “Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia”. La parola deriva originariamente dal greco, οὐ (non) e τόπος (luogo), e significa appunto “non-luogo”.
La coreografa aggiungendo il prefisso ur- che in greco significa primitivo, antico, originale, esprime simbolicamente il desiderio di raffigurare una Utopia odierna.
U(r)topias è dunque una Utopia reinventata attraverso un dialogo conscio con il passato. È l’oggetto necessario per un domani prospero. Una materia intangibile, un sogno dalle platoniche affinità.
Patricia Arpegi attraverso i corpi, lo spazio, sente il bisogno di ridefinire il nunc et ora dell’utopia, rendendolo un qualcosa di possibile, almeno attraverso una proiezione verso territori altri. Traccia la strada da poter percorrere tra i fallimentari tentativi di utopie del XX secolo. Porta all’interno di una presa di coscienza sull’impraticabilità di una rivoluzione. I danzatori, in scena, fanno i conti con la contemporanea caduta delle ideologie e con questo ciò che ne concerne. Non è difficile individuare, alla base di questo lavoro, certe analogie con la fenomenologia nichilista e del suo manifestarsi attraverso il pensiero debole. Concetto filosofico che sta alle fondamenta del postmodernismo europeo, di cui Vattimo e Rovatti sono i massimi esponenti.
L’ideatrice del lavoro e di conseguenza i performer, si pongono delle domande riguardo ai momenti in cui i corpi perdono il controllo di se stessi, a causa di molteplici crolli. Una defezione dovuta allo schiacciamento che trova la propria origine proprio in quell’essere indebolito e poroso davanti alle dinamiche di potere di una sovrastruttura invalicabile. Le cadute, sempre più reiterate, compongono una fitta partitura ritmica. Questa si evolve mediante l’esperienza del collasso.
Ebbene, il concetto di nuova e odierna utopia si traduce in ciò che la stessa autrice definisce Utopia della caduta. Un rovinare a terra che si prospetta senza mezzi termini, ma che si cerca in tutti i modi di indagare per poter attuare un cambiamento. Puntare ad una illogicità che non risponda ad uno schema già tracciato, ma che indichi, da sola, un’altra possibilità.