Un flusso di libertà

Un flusso di libertà

I dance-writers della redazione itinerante di We Speak Dance hanno assistito presso il Teatro Sociale di Pinerolo, lo scorso 21 gennaio, a una replica di Flow, creazione della compagnia svizzera Linga. Qui di seguito le loro restituzioni.


Flow, il flusso, la nuova creazione della compagnia Linga, si ispira all’affascinante spettacolo del mondo selvaggio, al movimento nell’aria degli stormi di uccelli, degli sciami di insetti, al movimento nell’acqua di branchi di pesci o ancora alle migrazioni di greggi di mammiferi. Queste formazioni flessibili e fluide, capaci di cambiare istantaneamente velocità e direzione senza perdere la propria coerenza spaziale, interrogano le leggi di interazione che agiscono sui diversi membri di un gruppo e sulla coordinazione dei loro movimenti.

idea e coreografia Katarzyna Gdaniec e Marco Cantalupo
interpreti Aude-Marie Bouchard, Marti Güell Vallbona (o Valentin Goniot), Ai Koyama, Valentin Goniot, Clélia Mercier, Csaba Varga, Cindy Villemin
luci German Schwab
musiche originali Keda (Mathias Delplanque, E’Joung – Ju)
scenografia Marco Cantalupo, Emilien Allenbach
costumi Geneviève Mathier
produzione Compagnie Linga
coproduzione Compagnie Lnga, L’Octogone Théâtre de Pully

Un flusso di corpi

di Giorgia Borgioli

C’è una luce flebile: illumina i dischi di sette colonne vertebrali che si muovono in onde uniformi.
C’è una musica generata sulla scena stessa, che più che accompagnare si modella sui copri nello spazio e anche loro modellano il suono.

C’è una domanda, che pervade le figure sul palco e poi, gentile, si insinua nella platea.

Poi svanisce.

C’è un insieme di atomi che sembrano essere attratti l’uno dall’altro.

C’è una domanda.

Poi svanisce.

C’è un movimento che ricorda il Tai Chi, fluisce sulla scena fino a divenirne parte.

C’è una domanda.

Poi svanisce, anche questa.

I muscoli sudati si srotolano in un flusso naturale che quando prende potenza scaraventa sul pubblico una serie di domande a cui non c’è risposta.

E la platea non può che riceverle. Le accetta come si fa con un dono, le osserva con curiosità, poi si accorge di non poterne attribuire alcun significato. Ma non è importante, perché proprio mentre il pubblico è lì che cerca di darsi una risposta, prontamente arriva la prossima domanda.

C’è un flusso di corpi che si fondono e la loro lega restituisce a chi li guarda domande alle quali nessuno avrà risposta.

C’è un flusso di corpi talmente potente che chi lo guarda si dimentica di volere da lui delle risposte.


Nel profondo blu

di Ludovica Fioravanti

Acqua siamo e acqua ritorneremo. Oscilliamo, avanti e indietro, fluidi, onde. Nel corpo e nella vita. Fluiamo nello scorrere del tempo. Balliamo come pesci nel mare. Per alla fine trasformarci. Nulla rimane uguale, everything flows.

Siamo spinti nel profondo blu. Acqua salata, rumori ovattati molto lontani. Luce quasi inesistente: uno spiraglio, fioco. I metri cubi di acqua sopra di noi filtrano tutto. La vita che esiste qui vaga nel movimento delle correnti e quasi nessuna vegetazione. Ogni tanto un’alga sparsa si appiccica alle squame di uno del branco. A furia di errare in questa densità blu notte, entriamo come in trans, mentre col branco ci muoviamo senza meta. Respiriamo insieme, in sintonia, siamo come un unico sistema. Siamo in sette diventati uno, oscilliamo per il palco come un feto nella pancia: sospesi, fluidi, densi.

Ma un basso più forte si fa sentire. Forse siamo risaliti troppo in superficie, quasi a galla. Anche la luce è aumentata. La distanza fra noi e fuori è sottile, sentiamo la musica scandita che suona nel mondo dell’aria, ci stiamo risvegliando dal nostro trans.

Iniziamo a danzare insieme, poi liberi. È una festa, saltiamo fra aria e acqua, spezzando l’uniformità che ci accomunava. Ci tuffiamo con vigore, tanto l’acqua attutirà. Fino a che essa non si trasforma in terra, solida, invalicabile, dura. Non facciamo in tempo ad accorgercene. Sbattiamo tutti sul pavimento. È aria e terra, non più acqua. Non siamo più acqua. Tutti corrono alla ricerca di un riparo, in questo nuovo mondo. Rimane un uomo, solo.

Sembra essere arrivato il predatore e siamo tutti all’erta, sospettosi, ci guardiamo come a disagio, senza fiducia, scappiamo, ci seguiamo. La domanda è: chi di noi prenderà? Nella foga impazziamo, stimoli elettrizzano il nostro corpo e così, sotto un cielo di luce bianca, cambiamo di nuovo.

La luna è un’esperienza solitaria. Pare deserta. L’uomo perso è qui un’ovvietà. Tutto si colora di bianco pallido. I suoni sono primitivi, sembra l’inizio della vita. La creazione da un foglio bianco. Come per la prima volta le orecchie sentono suoni, così anche il solitario cerca di farsi suonare con ciò che dispone: il corpo. Ricerca la corrispondenza con il luogo. Fino a quando una donna appare. Lei sembra sapere che musica tira qui. Non pare estranea, ma abituale. Entra un uomo che interrompe il momento. Cerca di fare colpo con capriole e acrobazie. Fortunatamente questa terra brulla è abitata. Ci sono più personaggi. Addirittura, un samurai. Sono una tribù che festeggia, che accoglie. Lo siamo diventati, una comunità in sintonia, un popolo che balla sulla stessa musica.

E ci ritrasformiamo. Siamo di nuovo pesci, siamo tornati nel profondo blu, siamo rimasti in sette ma formiamo un solo organismo. Abbiamo riprese ad ondeggiare, a fluire nel mare.


Geomungo

di Eleonora Natilii

Geomungo è uno strumento. Terra. Fungo.

Cetra coreana. Cedro. Fungo.

Cedro pizzicato, cedro picchiettato, cedro archetto.

Cedro. Cedo. Fluisco.

Terra. Fungo. Flora. Strumento.

È corpo.

Corpo di corpi. Corpo di greggi. Corpo di stormi, di banchi di pesci.

Fluire — uno strumento. Di chi è tutta questa vita?

L’astrazione della danza promette più carne della carne stessa.

La coordinazione nei movimenti sincroni collettivi.

Strumento.

Di chi è tutta questa vita?

Osservate in natura, le regole che regolano questa coesione spaziale ci hanno ispirato.

Strumento.

Di chi è tutta questa vita?

Nuova forma di organizzazione nel movimento di gruppo.

Strumento.

Coscienza collettiva nello spazio.

Fluire.

Di chi è tutta questa vita?

Questo progetto ci interroga sul rapporto tra individuo e gruppo.

Fluisco.

I limiti: costruzione — e istinto.

Di chi è…

Fluisco.

Tutta questa vita.

Strumento.

Corpo. Terra. Fungo.

Geomungo.


La leggenda del Geomungo

di Alessandra Perinetto

Lo spettacolo non è ancora iniziato, ma sul palco c’è qualcosa che cattura l’attenzione di tutti in sala, ancora prima dell’ingresso dei ballerini: è uno strumento musicale particolare, che probabilmente gran parte del pubblico non ha mai visto. È il Geomungo (in hangul: 거문고), uno strumento tradizionale coreano. Ha un corpo di legno lungo quanto l’apertura delle braccia di una persona, sul quale sono posizionate sei corde: lo si suona con un particolare bastoncino fatto di bambù o con un archetto.

Secondo una leggenda, la prima volta che il Geomungo fu suonato, dopo la sua invenzione, dal primo ministro del regno Goguryeo nel sesto secolo dopo Cristo, una gru entrò nel palazzo reale ed iniziò a volteggiare sulle note musicali. I ballerini sul palcoscenico sembrano rievocare proprio questo momento, con i movimenti dei loro corpi: volteggiano e corrono, si sollevano l’un l’altro come in volo. All’inizio, al buio, respirano tutti insieme, come un’unica creatura con il sottofondo del vento, poi, quando si sentono le prime note dello strumento, iniziano ad inseguirsi e perdersi, volare e cadere.

Il Geomungo era lo strumento preferito dei discepoli di Confucio per prepararsi alla meditazione e concentrarsi, poiché il suo suono calmava la mente e la ripuliva da qualunque pensiero. Questa tecnica era tanto apprezzata e ammirata in tutta la Corea, quando si unificò sotto il regno Silla, che il re inviò un emissario all’eremo Ok, affinché imparasse dagli eruditi confuciani a suonare il Geomungo. Anche quando le persone di bassa estrazione sociale suonavano questo strumento, dovevano pensare e comportarsi come discepoli confuciani. Anche i ballerini sul palco hanno trasportato gli spettatori in un’altra dimensione, ripulendo la mente del pubblico da qualunque pensiero estraneo al momento stesso della rappresentazione.

C’è un’altra leggenda che riguarda il Geomungo. Nella tarda epoca Joseon (1392-1910), il migliore e più ammirato suonatore di Geomungo era Kim Seong-Ki. Tuttavia, quanto più la sua capacità era apprezzata e più la fama del suo nome cresceva, tanto più egli si vergognava di vendere il suo talento per il prosaico scopo di mantenere la sua famiglia. Decise quindi di ritirarsi e vivere solo, in una baracca sul fiume Hangang e dedicarsi solo alla pesca. Alcuni componimenti conosciuti fino ad oggi sembrano risalire a lui. Come Kim Seong-Ki si sentiva oppresso dalla mercificazione del suo talento, così sui ballerini sul palco cala un pannello bianco che li schiaccia, loro si piegano, sono soffocati da questo peso che li opprime. A differenza del leggendario suonatore, che si ritirò da tutto e tutti, però, i ballerini sul palco riescono ad allontanare la minaccia solo insieme, dopo aver fallito singolarmente. Tentano un ad uno di affrontarlo, sollevandosi e saltando, i loro corpi sembrano quasi rompersi e spezzarsi per la fatica. Solo quando ritrovano la coordinazione e iniziano a muoversi tutti insieme riescono a liberarsene.

Lo spettacolo si conclude con tutti i ballerini che tornano a formare un unico corpo, un’unica creatura, che dopo aver concluso il suo volteggio nell’aria e aver vinto contro chi cercava di ostacolare la sua libertà, può tornare a respirare e, infine, assopirsi.


Flow o il riecheggiare dei passi

di Michele Pecorino

Si ode uno stormire mutevole. È impossibile non scorgere in scena quei tratti cangianti che rapiscono lo spettatore, per portarlo in un mondo altro. Flow, proprio come suggerisce il titolo per nulla criptico, è un flusso incessante. Un procedere ondeggiante e flemmatico dove i danzatori creano relazioni fondate sull’ascolto. Relazioni indissolubili che si poggiano lievi sugli occhi degli astanti. Un continuo avvenire, dove la prevedibilità lascia il passo ad un corso casuale. Dall’osservare si passa al vivere qualcosa che non solo avviene in scena, ma anche in luoghi altri, sconosciuti. Si elevano ambienti delle vaste e sublimi ombre. Il pubblico, restando incollato alle comode poltrone, compie percorsi fluviali, attraversa brividi ancestrali.

I primi suoni vengono emessi, le menti degli spettatori, sin da subito, si attivano nel riecheggio di suggestioni passate. I gusto, un pò acre, della memoria genera immagini nove. Ogni gesto richiama un volto, una forma, un colore, una sensazione. Qualcosa di mai vissuto un racconto mitico, epico. Proiezioni di un mondo vicino ma sfuggevole. Dal canto opposto tutto quello che, fino ad un attimo precedente, sembrava essere lontano, adesso appare vicino. Alla vista sembrerebbe aprirsi un papireto beccheggiante sotto lievi ariette. Lo scorrere dei corpi danzanti, leggiadri e armonici, fa dispiegare le ali affinché si possa intraprendere un viaggio ossimorico. Privo di qualsiasi zavorra che possa far diventare ogni meta di passaggio un punto di ancoraggio. I performer sembrano essere immersi all’interno di un flusso sonoro che li coinvolge. É tutto una riemersione cangiante. Una continua evoluzione.

I ritmi, dalle risonanze orientali, sono dati da una musicista visibile sul palco. Lo strumento, dal quale proviene il suono, è alquanto particolare, per non dire del tutto sconosciuto alla più ampia parte dei presenti in sala. Si tratta di un Geomungo uno strumento originario della Corea settentrionale. Un cordofono, per l’esattezza, simile ad un monocordo pitagorico. La musicista capta ogni gesto, sente ogni intenzione dei danzatori. Le sue dita traducono in note ciò che avviene sulla scena. Impercettibilmente sulle corde scorrono i passi dei corpi tersicorei. Gli armonici crescono in un evolversi graduale, per poi subito assottigliarsi a seguito dell’insinuarsi lento di tinte più tese. Il vibrato, dato da un archetto sulle corde, il pizzicato accennato, simile a uno stillicidio, donano una profondità sonora alla scena. Si innesca un vortice dentro il quale poter fare esperienza di un nuovo un paesaggio uditivo.

La fluidità non trascina i corpi dei performer, bensì diviene luogo abitato in piena coscienza di movimento. Ogni singolo gesto risente della propria autonomia di compostezza. L’armonia è nella presenza stessa dei corpi. Nella dinamica naturale che generano relazionandosi senza schemi rigidi. La scrittura coreutica, carica di molti momenti corali, attraverso il delicato scorrere, si rafforza di immagini sempre più presenti e forti. I frequenti spirti di gennaio che rincorrono, realmente, ma anche in maniera del tutto suggestionale lo spettatore  seduto sulle poltrone, sembrerebbero abbattersi con furia infausta in una scena densamente popolata. In tutto c’è una viscerale attesa dell’attimo. La propensione all’evoluzione innesca quel flusso  di cui cui questo lavoro è espressione. Il disegno luci si compone di particolari tagli che si spostano da colorazioni calde a più fredde. I riflettori sono calibrati magistralmente, in relazione al movimento cangiante della scenografia. Lo spettro visivo si districa grazie alla presenza del pannello scenografico. Ciò fa che esso sia un elemento scenico polivalente. Da  filtro per la luce passa ad essere un telo riflettente. Ma soprattutto è un oggetto di scena che disegna lo spazio che ne da le diverse profondità. Il pannello viene abbassato, rialzato, viene inclinato prima da un lato e poi da quello opposto. Ebbene, il flusso caratterizza e avvolge ogni elemento costruttivo di Flow. Ogni occhio, ogni presenza si abbandona ad esso ed il viaggio continua teatro dopo teatro.


Pensieri sconnessi e e benzinai per Pinerolo, Flow e il mondo che si muove

di Mirco Spadaro

Zugunruhe, tedesco, da Zug, movimento, migrazione, e Unruhe, preoccupazione, ansia; da un- ,particella di negazione e Ruhe, quiete, calma. Zugvögel, gli uccelli che migrano. Lo Zugunruhe, chiamato anche “irrequietezza migratoria”, è l’istinto d’ansia degli animali migratori quando arriva la stagione in cui è tempo di spostarsi, di muoversi, di migrare; anche in gabbia, gli uccelli sentono il richiamo del vento dell’Ovest. È sabato 21 gennaio e stiamo tornando dal teatro Sociale di Pinerolo; lo spettacolo di Katarzyna Gdaniec, Marco Cantalupo e della compagnia Linga si chiama Flow, racconta delle cose che spaziano nel mondo, di corpi che sembrano tanti aironi e sbattono grandi ali come braccia, di grandi greggi d’uomini donne animali che sono tante cose e tutt’insieme formano un’eggregora: movimento. Per me ha parlato anche d’altro: di migrazione. L’ho capito che sentivo ancora la musica e le ruote sull’asfalto passavano di fronte ad un benzinaio che non illuminava la notte, ma la rendeva più misteriosa.

«When a change comes, some species feel the urge to migrate. They call it zugunruhe, a pull of the soul to a far off place. Following a scent in the wind, a star in the sky», quinta puntata, prima stagione, Heroes. Gli storni coordinano i propri movimenti allineandosi con i sette uccelli più vicini: vanno a ritmo, anche loro come i coreografi davanti a noi; anche noi. Noi siamo in movimento; su sette e più di miliardi di abitanti che il pianeta conta, nove o dieci alla fine di questo secolo, più di un miliardo si sta muovendo in questo momento. 232 milioni di persone migrano oltre i confini del proprio paese: il 33% nell’Africa subsahariana, il 21% nel Medio Oriente. Diciotto Paesi attirano più del 70% di queste potenziali migrazioni; tra loro in particolare gli Stati Uniti d’America, il Canada, il Regno Unito, la Francia, la Spagna e l’Australia. Lo fanno per molte ragioni, alcuni fattori influiscono più di altri: la popolazione anziana da un lato, una giovane e disponibile dall’altro, la penuria di mano d’opera, la disoccupazione, l’accesso alle risorse naturali, i sempre più incalzanti, prementi e terrificanti problemi della quasi insuperabile crisi ambientale; i drammi della politica e del senso di umanità, che ora si perde, che ora si trova, si dubita.

Zugunruhe; anche gli animali sono in movimento: spostamenti verticali in risposta a variazioni di temperatura nei microrganismi d’acqua dolce; il viaggio delle balene dai mari polari a quelli subtropicali; il grande muoversi, pesante e indefinibile, dei boschi, dei deserti, che si guerreggiano lo spazio in battaglie invisibili; lo spostamento terrificante delle nuvole di locuste africane quando la popolazione cresce e il nutrimento scarseggia; la grande marcia dei lemming che si muovono trascinandosi appresso la fame dei compagni loro, morti nel cammino; il mare, la tempesta d’ali dei 50 miliardi di uccelli che coprono il cielo del mondo: una schiera. «Nel 1948, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo riconosceva il diritto di lasciare qualunque Paese, compreso il proprio, senza però definire il diritto di entrare in un altro. In seguito, il diritto ha compiuto progressi per gli immigrati regolari ma le frontiere si sono chiuse all’entrata. Gli Stati percepiscono spesso la migrazione come una minaccia all’esercizio della loro sovranità sulle frontiere e la migrazione irregolare come una forma di criminalità. Ma i muri delle frontiere sembrano frantumarsi grazie al peso delle reti transnazionali, ai matrimoni misti, alla valorizzazione degli scambi culturali, allo sviluppo dello ius soli e alla doppia cittadinanza, alla consapevolezza della diversità culturale e delle identità multiple, alla lotta contro le discriminazioni […]», scrive Catherine Withol de Wenden nel suo saggio “le nuove migrazioni”.

Erano le nuove migrazioni tanti anni fa; oggi le migrazioni nuove sono ancora più nuove e sono ancora diverse; c’è una nuova linea della metropolitana in costruzione a Collegno, chiacchieriamo sulla navetta che ci porta a casa dal teatro di Pinerolo. Domani, un domani, spostarsi verso Torino sarà diverso; sarà fottutamente più veloce, dico sulla navetta. Tutta la migrazione del mondo che si muove come un unico braccio teso, in ricerca. Anche noi ci muoviamo, come i gabbiani che s’abbarbicano temporaneamente sui neon dell’IP che sbiascica i suoi prezzi un po’ pazzi nel freddo un po’ porco della notte. Si muovono loro e ci muoviamo noi: Torino, Pinerolo; Pinerolo, Torino; Rivoli, Collegno, Torino.

«Flow, c’est la fluidité, le flot, le mouvement qui coule comme en apesanteur. C’est aussi une performance d’une précision rare. […] un spectacle inspiré de ces fascinantes facéties que nous offrent parfois les bancs de poissons capables de former un groupe compact sans se heurter». Le migrazioni riducono le disuguaglianze; ci ho riflettuto mentre guardavo E’Joung-Ju che pizzicava le corde del Geomungo, la cetra tradizionale coreana. Come un braccio, richiudono le distanze. Le musiche sono di KEDA, un duo formato da E’Joung-Ju, musicista esperta di questo particolare strumento, e Mathias Delplanque, compositore di musica elettronica famoso in Francia. Scocca le corde e come una freccia il corpo di Csaba Varga, che ha ballato sotto un cielo che si faceva progressivamente più basso, si tende, si libera, vola, come un airone. Senza quel movimento, senza migrazione, sarebbe un mondo duale con ricchi e vecchi da un lato e giovani e poveri dall’altro, con un potenziale di violenza considerevole dietro confini chiusi e “ignoranti”, inconsapevoli davvero dell’altro e quindi di sé stessi.

Come scrive Badie in Puissants ou solidaires, «Sarebbe anche un mondo senza relazioni, privato degli apporti esterni, demografici, economici e commerciali, politici e scientifici, culturali, etici; un mondo, dunque, destinato al declino. Sarebbe, soprattutto, un mondo insicuro». Penso che i gabbiani questo problema non se lo pongano. Ripensiamo a quello che abbiamo visto, all’esserci sentiti anche noi un po’ animali, un po’ uccelli che prendono il volo verso le cose a cui la gente vola. Anche la lingua migra, nel tempo: una volta tutto questo era Latino. Ci allontaniamo da Flow che più di averlo capito l’abbiamo sentito; un’ansia che c’avvolge d’un vento: movimento.


Nel flow, con il flow, per il flow

di Martina Vianovi

Ondeggiare. Lo spettacolo inizia così, fra le onde.

O forse in un prato: sono fili d’erba, i danzatori, fili d’erba di uno stesso prato, e nel vento ondeggiano, fili d’erba e sciame delicato. L’unità fa la forza ma anche la bellezza,penso.

Il primo gesto forte è una scossa, la prima nota che si stacca dal tappeto musicale uno scossone. Si alza di poco la luce, e la marea gentile si fa tempesta, uno stormo danzante. Qualche elemento si stacca per volare solo, ma subito torna al gruppo come attirato da elastici impercettibili, fili brillanti di tele di ragno. Dev’essere un modo di stare insieme, quello, soli. Un modo di stare soli, insieme.

C’è dell’oriente, qui. Ci sono caverne e suoni ancestrali, antichi e gutturali, archetipici. Poi il mio respiro salta un battito: c’è un soffitto lassù.

Un telo bianco cala, come un coperchio su una scatola di uccellini. Opprime e toglie l’ossigeno, sottrae vitalità, circostanzia. I movimenti diventano spinte e spasmi per lo spazio, ma anche in mancanza di questo: una resurrezione. Ognuno cerca il proprio perimetro e la lotta è solitaria, ma sembra una contorsione che trae linfa da se stessa: più insiste, più recupera vigore. Lo stormo si muove di nuovo all’unisono — ritrovate le forze, recuperato il legame — danza verso l’alto, spinge via il soffitto, punta a scoperchiare la scatola?

A un tratto, entra in scena il rosso (sarà alba, sarà tramonto?) e il sound si scopre più occidentale, quasi un west, mezzogiorno di fuoco nel bianco del telo che si abbassa sui danzatori — su uno solo di loro — mentre il movimento si trasforma e cambia registro, linguaggio, accenti. Tornano tutti gli uccellini, uno a uno, finché, d’improvviso, non realizzano: si guardano attorno, si osservano l’un l’altro, come si scoprissero solo in quell’istante — esistono. Sanno di loro, adesso. E sanno della scatola.

Inizia un’ultima danza. Nuova, e definitiva. Come una confidenza ritrovata col mondo, una prova di spazio, tribale ed elegante insieme, morbida e assertiva, giocata e sensuale. È un rintocco, ma anche scia.

Ecco comparire il giallo (era aurora, dunque), quasi azzurro ora, e in punta di piedi si riforma la coreografia dell’inizio: arricchita del percorso, della liberazione, del ritorno. E con lei, i suoni appena accennati, lontanissimi. Un’alba che è quasi sepolcro. Ma dolce.

Il soffitto della grande scatola scende a coprire la danza, la sposta a terra, la sospinge verso il riposo. La copre, conserva, e protegge. La disarma. Fino al buio, fino al silenzio.

È una domanda che non si cura della risposta — non è quella, che conta. Solo domandare, continuare a domandare. Scoperchiare, con delicatezza.

Come stare dentro il flow. Danzare nel flow. Con il flow, per il flow.

Sollevare coperchi, in punta di dita.

Enough or not? Sguardi e parole sulla creazione di Calderoni / Caleo

Enough or not? Sguardi e parole sulla creazione di Calderoni / Caleo

Il desiderio struggente di comunità. I detriti e le rovine di un mondo a pezzi. Un passato che diventa baluginio del futuro, giacché non coincide con il presente. Questi e molti altri sono i nodi generativi alla radice di The present is not enough di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo, in residenza da 10 al 21 gennaio scorsi alla Lavanderia a Vapore. Il lavoro dà spazio, voce, forma e luce ai corpi, al loro disporsi, alle potenzialità di una comunità senza norma. Corpi nudi, abbandonati, vulnerabili. Che scrittura può diventare tutto ciò? A tentare di tradurre la visione in parola scritta sono statə alcunə dance-writers provenienti dall’Università di Torino e dalla Scuola Holden, parte della redazione itinerante del progetto We Speak Dance. Le giovani penne hanno avuto l’opportunità di assistere a una prova aperta della creazione la sera del 19 gennaio, presso il Centro di Residenza di Collegno.


Ho visto un documentario su un polpo. breve. degli anni sessanta. la voce parlava francese, capito poco, nulla direi. ma aveva un andamento terrorifico, da horror. sussultavo ad ogni attacco di frase. il polpo aveva la granulosità metallica della pellicola in technicolor. per via della voce narrante, e anche della sonorizzazione, sembrava un assassino. si muoveva, pericoloso, sui fondali, tentacolare. vischioso. ma del resto era un polpo, faceva il suo lavoro. chissà, se era sempre lo stesso polpo. me lo chiedo spesso, quando guardo i documentari. se il polpo di cui seguiamo le vicende, il leone acquattato, il coleottero melolontha siano sempre lo stesso polpo lo stesso leone lo stesso coleottero. o non siano individui diversi, ripresi in momenti e magari anche in luoghi diversi. sarei in grado di distinguerli l’uno dall’altro? e che cos’è, che sappiamo distinguere con certezza?

Note drammaturgiche

Alcune cose che ci interessano. I disturbi della memoria. Proprio le interferenze, i buchi. La solitudine, ma forse al plurale: le solitudini. Una serie di solitudini. Molto spazio vuoto attorno a un corpo. I battuage. Un’utopia dei corpi di cui non abbiamo esperienza.
Forse potremmo cercare una zona comune, di indiscernibilità, e iniziare ad abitarla.
O forse invece ciò che separa e distingue un disturbo, da una condizione, da una scopata.
D.W. in un suo lavoro cuce insieme due pezzi di pane raffermo, con un filo rosso. Per rifare l’intero, impossibile. Per fermare la vita, dilazionare la morte.
O forse potremmo buttare tutto alle ortiche. Sono fortunate le ortiche. Hanno tante idee scartare di cui nutrirsi.

di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo
con Giacomo AG, Tony Allotta, Silvia Calderoni, Ilenia Caleo, Gabriele Lepera, Federico Morini, Ondina Quadri
cura e produzione Elisa Bartolucci
consulenza drammaturgica Antonia Ferrante e moltx amicx praticanti
residenze artistiche e co-produzioni Mattatoio Roma, Festival Buffalo (Roma), Kampnagel (Hamburg), Vooruit (Ghent), MotusVague

Ripresentarsi ancora. Vi rincontro in 3000 caratteri e altri ancora…

di Michele Pecorino

È tutto lì, tutto in scena. Il gioco di sguardi, che arriva dai performer, inizia fulmineamente. Introdotto il primo piede in sala, si entra in una dimensione, o meglio dire all’interno di un’essenza comunitaria, dove quel limen, che separa la realtà dal sogno utopico, è continuamente in fuga. Quella soglia di confine si rincorre perdendosi e ritrovandosi a sbirciare se stessa. Non si è mai pienamente consci di quello che sta accadendo. Si è tutti sospesi su un filo di sguardi. Ci si abbandona alla ricerca di un momento di uscita da se stessi.

Le sedute, consistenti in pezzi di gommapiuma, poste su tre lati della scena, permettono una visione dal basso, alla pari con lo sguardo dei performer. I riflettori, su stativi mobili muniti di rotelle, si accendono. La scena si frammenta, le ombre iniziano ad insinuarsi tra le viscere della curiosità dello spettatore. Le prospettive di sguardo si moltiplicano. Tutti i corpi si stagliano, seminudi, davanti agli occhi dei presenti. Gli sguardi fanno inevitabilmente i conti con la memoria. Ad ogni battito delle palpebre, quell’attimo appena vissuto, svanisce. A restare è il ricordo, più o meno sbiadito, di un’impressione. Forse, a rimanere, è la sensazione di quell’incontro, così effimero quanto carnale. Le tracce nei corpi-spettatori rimbombano nel sentire un piacere estemporaneo. Nessuna sovrastruttura ingabbia ciò che accade.

Si è agli antipodi del normato, in una partitura che si dipana mediante l’incontro. Lo spettatore, perdendo ogni sovrastruttura culturale, si inerpica in sentieri, spazio-temporali, dove a giocare un ruolo fondamentale è l’incontro. Dai primi istanti si apre un mondo parallelo dove lasciarsi condurre, dall’allusione, in un racconto composto da movenze e sguardi intensi. Ciò che avviene non è soltanto in scena, ma riguarda tutta la stanza. Non si è più in un luogo, ma in uno spazio fatto di corpi, di oggetti. Il pubblico diviene parte indispensabile della performance. Mentre tutto intorno è distrutto, mentre crollano gli ultimi ingranaggi arrugginiti di una civiltà abbandonata, si costruisce una memoria del corpo, del piacere.

THE PRESENT IS NOT ENOUGH è un lavoro dove non c’è la parola, ma mai come in questo caso è estremamente emergente e traboccante dai corpi nudi. ogni presenza trasuda parola. Ad ogni passo, ad ogni cambio di scena, emerge il desiderio di costruire una comunità. La scena muta continuamente per mano dei danzatori-performer, le luci che un attimo prima illuminavano, adesso  abbagliano. La visuale che prima era sgombera adesso è occultata. Si rende necessario così dover sbirciare, dover rincontrare quegli sguardi sconosciuti, capaci di prendersi cura di te che stai a guardare.

Ogni occhiata  è capace di innescare differenti livelli di  godimento fugace. L’intera performance è un incontro diretto che genera continuamente nuove forme di vita. Necessarie per poter accedere ad un mondo Altro. Ogni sguardo, un déjà vu. Un ricordo che si faglia nella ricerca di un attimo.


The present is not (always) enough

di Martina Vianoni

New York, anni ‘70. La comunità queer è solita ritrovarsi ai Piers e ai Docks, edifici derelitti e moli abbandonati, adagiati sulle rive dell’Hudson. Si prende il sole, si conversa — di vita, d’arte, del più e del meno — si scattano foto, qualche occhiolino, un sorriso, si scopa. Semplicemente si sta, per lo più nudi. Senza vestiti e senza giudizi.

The present is not enough di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo ci porta in questo battuage: T-shirt vintage, calzini di spugna a strisce colorate, sacchetti di plastica con dentro qualche indumento — quelli che non si hanno indosso: tutto il resto è pelle nuda. I proiettori in scena, il sole.

La nudità non è ostentata, solo esposta. Semplicemente sono, questi corpi, come sarebbero sulle rive dell’Hudson: prendono il sole dei proiettori, li spostano a illuminare ciò che rimarrebbe in penombra, si sdraiano, siedono, rotolano. Poi si guardano, ci guardano. E lo spettacolo si consuma qui, nell’apparente immobilità di questo accadere. Uno smottamento continuo camuffato da assenza di movimento, grande quiete in superficie, una stasi, ma sotterranei alla superficie organi in subbuglio, correnti di sguardi, casse toraciche in espansione e altre faccende più piccole — mignoli, unghie, ciglia. Fa presto un accenno, nella rarefazione, a trasformarsi in uno tsunami. Alla faccia dell’immobilità.

Lo spettacolo continua a gonfiare, accumulare, caricare, e sul finire scocca: dietro un muro di pannelli improvvisato si celebra un fuoco d’artificio, un amplesso di sobbalzi ripetuti, vicinissimi, instancabili, poco più che saltelli tecnicamente, ma la resa evocativa è cristallina, e potente. Quando entra in scena la regista, acquattata fino a quel momento nello spazio scenico riservato alla consolle del sound, ecco il climax – mi dico – fisiologico e inequivocabile, dello show.

Eppure il punctum si sposta altrove, del tutto inatteso: nel tirare su il muro, prima dell’apoteosi dionisiaca, hanno lasciato uno spazio. Una feritoia, per lasciarci sbirciare. E da quella feritoia, improvviso: un braccio. Disteso, abbandonato a terra. Punta nella nostra direzione. Il pubblico, che finora ha solo intravisto, senza davvero vedere, viene raggiunto. Come venisse chiamato, puntato. Una signora si alza e percorre un pezzo del ferro di cavallo che è dedicato alle sedute degli spettatori, si porta dove il suo sguardo può spaziare – oltre il muro. Deve osservare, deve svelare. D’altronde le è consentito, la scena è pensata perché ci si possa posizionare dove meglio si crede e anche, all’occorrenza, spostarsi. È qui che penso: senza feritoia, senza muro, non si sarebbe alzata questa donna, non avrebbe sentito la spinta animalesca partire dalla testa ed esondarle nel corpo, fino a spingerla a spostarsi, fisicamente, a trovare il punto esatto in cui abbeverare il proprio sguardo. È sempre una qualche feritoia, dunque, a invitarci a entrare? Com’è che alle porte spalancate ci affacciamo così poco, e con meno piacere? È l’entrata scomoda a chiamarci, l’accesso che richiede uno sforzo, un adattamento, una lotta? Ci portiamo dove l’istinto ci ammalia, purché richieda uno procedere sui gomiti come soldati in trincea. Altrimenti stiamo, semplicemente stiamo.

Da questa strettoia abbiamo intravisto il passato, oggi. Ma se tutta questa fluidità ci chiamasse a scivolare nel futuro? Un futuro che possa, finalmente, essere enough.

E allora chi si spinge in questo anfratto di domani? Sembra impervio, difficile, faticoso. Ma sai che fuochi d’artificio, dopo? Oh, che fuochi d’artificio, dopo.


Più vite, da un presente immobile

di Maria Rosaria Visone

19 gennaio 2023, ore 18:00. La città di Collegno è desolata, gelida. Eppure, a due passi dal silenzio, c’è modo di scaldare il cuore: basta oltrepassare le porte della Lavanderia a Vapore.

Proprio qui, dopo un periodo di residenza artistica, le due performer Silvia Calderoni e Ilenia Caleo hanno restituito a un pubblico ristretto un ulteriore studio di “THE PRESENT IS NOT ENOUGH”, svolto in sinergia con i/le performer Giacomo AG, Tony Allotta, Gabriele Lepera, Federico Morini e Ondina Quadri.

L’universo del lavoro si presenta sin da subito libero da regole e strutture formali: qui c’è da spogliarsi dell’ordinario, togliersi le scarpe e sedersi a un passo dalla scena (magari a gambe incrociate), consapevoli che – mai come in questo caso – la scelta del posto a sedere non sarà banale: il mondo urbano, quasi onirico e inafferrabile di Calderoni e Caleo si riempie infatti di più significati, a seconda dei molteplici punti di vista del pubblico.

Quello dipinto dalle due artiste è un passato nostalgico, dove la percezione del binomio tempo-vita si altera, a tratti si annulla. Ci si affaccia a un microcosmo dimenticato, lontano dal quotidiano e dal sentire comune ma che è nostro, ci appartiene. Perché – senza negarlo – siamo carne viva, avvolta insieme da mistero e fascino, tra le strade condannata spesso a occhiate critiche sconosciute. Eppure, carne che costruisce un corpo, teatro e dimora del nostro vissuto, del nostro presente: perché allora non provare a cullarlo, abbracciarlo, apprezzarlo, quel corpo? Una domanda di apertura, un’esortazione che Federico Morini porta ai nostri occhi in tutta la sua forza scenica: con un fare e un esplorare da bambino, si porta alle labbra l’alluce, assaporandolo più volte delicatamente. Uno scenario morbido e soave, spezzato inaspettatamente da Giacomo AG che irrompe di schiena a gattoni verso il pubblico, quasi abbattendo una parete invisibile: nel suo sguardo già scorrono le immagini afrodisiache che si dispiegheranno sulla scena nei minuti immediatamente successivi.

Così, alla luce fioca e al silenzio subentrano un buio pesto, una musica che richiama il punk rock degli anni ’70: quando le luci si riaccendono siamo sui piers del fiume Hudson, a pochi passi dal traffico cittadino newyorkese, nei luoghi urbani dimenticati e abbandonati di Stanley Stellar, dove l’edonismo governa la luce del giorno. Un Eden nascosto di corpi in attesa di appagare i sensi. Corpi vivi, corpi pieni: di fantasie, incastri, desideri. Dalla scena, occhi vispi e vigili sussurrano, chiamano, si mescolano agli occhi del “mondo di fuori”, offrendo esperienze erotiche individuali. È un incrocio intimo, segreto, un momento di scambio tra chi si osserva. Gli sguardi e i corpi dei/delle performer sono aperti, pronti a raccontare, a domandare ma a non approfondire troppo: il pubblico deve ricordare che si tratta di visite occasionali, di flirt destinati a rimanere incompiuti. Variano le angolazioni, cambiano le strutture, mutano le postazioni e le posizioni, ma la linfa iniziale resta. Appena dietro gli occhi, sulla pelle, nel petto.

Si aprono e si chiudono ambienti, confini dotati di fessure e spaccature: di queste ultime, una farà la differenza. È la crepa del muro di pietra. Al di là, un movimento corale nuovo, più intenso, irrequieto e incontrollato prende vita. È un tumulto che cresce gradualmente, fino a far cadere a pezzi l’enorme barriera e a propagarsi in altri luoghi, altre menti, altri sguardi.

E nel mondo reale?

Sentito mai di movimenti umani capaci di abbattere intere “sovrastrutture”?

Probabilmente in passato. Adesso è il presente.

Cosa è cambiato da allora?

Se questa domanda ancora ci disorienta, forse è proprio così: il presente non è abbastanza.


Pagina di diario del 19 gennaio 2023

di Federica Siani

Dopo un viaggio un po’ trafficato, arrivo in Lavanderia una quindicina di minuti prima delle diciotto.

Dopo qualche chiacchiera con persone amiche realizzo di non essermi documentata -o voluta documentare (?)- neanche su questa performance.

Ci avviamo in stireria. (Sono qui per assistere ad una prova aperta di “Present is not enough” di Silvia Calderoni e Ilenia Caleo).

Entriamo nella prima stanza, accolti dalle due coreografe, insieme con una serie di foto e libri e diapositive che in un primo momento non ci vengono presentati, ma viene spesa solo qualche parola di presentazione sul progetto.

Si entra nella seconda stanza, luogo della performance.

Mi siedo sul cuscinetto-che ammetto di aver trovato un po’ troppo duro, ma da cui comunque non mi sono schiodata per l’intera durata: un’ora-.

Veniamo accolti da un primo attante che, vestito di una sola maglietta, esplora con la bocca il pollice del suo piede.

-al momento non sappiamo il numero di performer/perfomesse che abiteranno lo spazio-.

Entra Ilenia e abita la sua zona-rifugio: la regia. Si occuperà lei della musica, del suono e parte delle luci -solo una parte perché sono gli altri abitanti a modificare in scena la posizione e i colori degli illuminatori-.

A poco a poco lo spazio performativo viene abitato fino ad essere sette gli esseri umani che vivono, modificano e creano questo luogo. E per farlo, hanno a disposizione il loro corpo, lo spazio di cui mutano costantemente le geografie e un sacchetto di plastica ciascuno, come deposito-bagaglio dei propri indumenti.

La performance termina in un picco emotivo. In sala tra i pochi presenti invitati percepisco una piccola esitazione prima dell’applauso. – io ho fatto fatica a rompere la relazione creata insieme con loro e con lo spazio e con gli oggetti presenti-.

Abbandono la Lavanderia, carica di emozioni e un po’ senza parole.

Nella serata di giovedì ho partecipato ad un evento forte.

Ho attraversato paesaggi di cui non vedevo l’esistenza.

Ho sentito sguardi presenti su di me e a cui ho cercato di rispondere sinceramente.

Ho sentito un po’ di fastidio, subito, ma poi di fascinazione e poi di dolore.

Sguardo;

Corpo;

Nudità;

Essere umano;

Verità nascosta e rivelata;

Forza.

Questo evento performativo mi ha condotto verso nuovi mondi, utopici forse perché troppo reali.

Di solito, uso i viaggi in macchina in solitaria per riflettere sulla vita, su di un evento o su ciò che mi passa per la mente.

Quel viaggio in macchina è stato anch’esso silente.

Dopo quasi una settimana e dopo essermi documentata -direi abbastanza- sul progetto, eccomi qui a cercare delle parole per “Present is not enough”. Scritte tutte di un fiato.

E dalla pancia.

Una pagina di diario e di sensazioni del 19 gennaio 2023.

DanzArTe in residenza

DanzArTe in residenza


Come si può rinominare la parola “fragilità”?
Forse attraverso le parole delicatezza, sensibilità?
Come e attraverso quali pratiche possiamo proteggerle e prendercene cura?
Come possiamo, quindi, risignificare la relazione con la fragilità e il modo di percepirla attraverso un rito, che ci aiuti a sostenere la sottile linea di senso, tra visibile e invisibile? 

Il progetto DanzArTe è giunto, tra il 9 e il 22 dicembre scorsi, alla sua tappa conclusiva: una residenza artistica, nel corso della quale le coreografe Francesca Cola e Debora Giordi – accompagnate dalle tutor Ana Cristina Vargas (antropologa culturale) e Laura Marcolini (designer, artista visiva e scultrice) – hanno dato avvio a un nuovo tempo di indagine, attraversando e sviluppando i temi emersi durante le prime fasi del percorso, integrati morbidamente nel processo creativo. 


Residenza DanzArTe
di e con Francesca Cola e Debora Giordi | coreografe
con la consulenza scientifica di Ana Cristina Vargas | antropologa culturale e Laura Marcolini | designer, artista visiva, scultrice
nell’ambito del progetto DanzArTe
DIBRIS – Università di Genova, attraverso Casa Paganini – InfoMus e in collaborazione con DIRAAS, è capofila del progetto DanzArTe
in partenariato con il Dipartimento Cure Geriatriche, Ortogeriatria e Riabilitazione | E.O. Ospedali Galliera di Genova, la Lavanderia a Vapore di Collegno (TO), la Residenza per anziani Cardinal Minoretti e il Museo Diocesano di Genova
collaborano al progetto DanzArTe: AMEI (Associazione Musei Ecclesiastici Italiana), Fondazione Piemonte dal Vivo, Goethe Institut Genua – Turin e SIGOT (Società Italiana Geriatria Ospedale e Territorio). Il progetto DanzArTe è voluto e sostenuto da Fondazione Compagnia di San Paolo nell’ambito di WellImpact
This project has received funding from the European Union’s Horizon 2020 research and innovation programme under grant agreement No 824160
Dove nodi intrecciano nodi

Dove nodi intrecciano nodi

Si pubblica qui di seguito un breve testo programmatico proposto da Salvo Lombardo, artista associato della Lavanderia a Vapore, in occasione del lancio della stagione 2022/ ’23. Un invito a ricercare – chiosa il coreografo e danzatore – «uno spazio in cui intrecciare nodi a partire da nodi […]. In cui non risolvere la piega e in cui, soprattutto, respirare».


«Abbiamo la pretesa che un artista plasmi la nostra immaginazione, ma non dimentichiamo che un artista non può lavorare una materia che non gli offre alcuna resistenza plastica».

Questa chirurgica sentenza, che Edgar Wind scrive nel suo Arte e Anarchia, mi dà la possibilità rinnovare una domanda, ovvero quali siano, per me, oggi, le “materie” che mi offrono quel gradiente di resistenza plastica che è necessario per spostare i miei processi di creazione e il mio lavoro artistico dall’insidia della vacuità e del solipsismo?

Penso, prima di tutto, a quell’intreccio inscindibile e generativo tra la materialità del tempo e dello spazio, ovviamente, in rapporto all’esercizio dello sguardo. Tempo-spazio-sguardo: sono tre nozioni che scivolano “simpaticamente” (uso questo termine in senso etimologico) nel campo della relazione.

Cos’è la relazione per me? Credo sia un’altra matassa inestricabile di nodi, proiettata ad attenuare la guerriglia tra oggetti e soggetti del mondo. La relazione e i suoi sistemi, la relazione e le sue pratiche, la relazione e le sue estetiche. Relazione come campo aperto, oltre i dualismi binari. Relazione come emergenza di rinnovate prossimità (umane e non umane).

Il tempo invece, dal canto suo, apre ad un altro livello di molteplicità; poiché il tempo, nel lavoro artistico, si declina sia come “intervallo di realtà” che di volta in volta mi accingo a guardare (il mio presente, per esempio), sia come quella porzione di tempo, materiale e misurabile, necessaria alla messa in opera del mio sguardo sul tempo stesso.

E infine, non in ultimo, la questione dello spazio, che non è una categoria astratta ma al contrario informata da una serie di coordinate fondamentali: dove mi situo nel guardare le cose? Qual è il mio campo di enunciazione? Quali altri soggetti sono inclusi? Da quale posizione osservo e agisco? Quale postura assumo nell’occupare spazio o nel liberarne?

In questo senso, il mio rapporto con la Lavanderia a Vapore in questi anni ha assunto la connotazione di occupazione transitoria di uno spazio ideale: capace di valorizzare le categorie che informano i processi di creazione e che ho nominato finora.

Ideale perché, ai miei occhi, perennemente edificabile e abitabile in maniera corale. La sua articolazione è in grado di manifestarsi, di volta in volta, nella costruzione di una “durata reale”, come la definisce Henri Bergson, ovvero nella possibilità di generare un flusso delle esperienze in questione il più possibile eterogeneo, non per forza lineare (dunque non astratto) e soprattutto nutrito dalle soggettività di chi lo anima, come a farsi prolungamento del campo di presenza e di azione di ciascuno dei soggetti coinvolti.

Uno spazio che può al contempo dare espressione alla manifestazione visibile del lavoro artistico (le opere) ma che è desideroso di generare processi che possano, volendo, non essere preludio di alcuna opera, impermanenti nella tessitura di ciò che può sembrare l’invisibile.

Questo spazio che sto evocando, rispetto alle logiche produttive usuali e diffuse, si articola nella dimensione del “prima” e si qualifica nella categoria del “in-sé”. Viene naturale dunque provare a declinare con scioltezza il tema della cura e quello della reciprocità applicato a questo contesto e al mio modo di attraversarlo ricevendo e offrendo atti di cura.

La cura, in questa prospettiva, si realizza con la definizione di perimetri relazionali che si propongono di mettere in connessione, in un’ottica “inter-culturale”, contesti, storie, sguardi, provenienze, spesso anche non allineate o prossime, per creare nuove alleanze e far atterrare tanto le opere quanto i processi, in un più ampio sistema di risonanze – simpatiche, come dicevo. Allora è così che nella mia esperienza finora uno spazio della cura come questo è al contempo ambiente domestico e sfera pubblica; è una “contact zone”, dove liquidare i confini tra il deposito affettivo e l’emersione pubblica delle pratiche, dei concetti e dei gesti che invadono il lavoro artistico. Uno spazio in cui intrecciare nodi a partire da nodi, come direbbe Donna Haraway. In cui non risolvere la piega e in cui, soprattutto, respirare.

Salvo Lombardo

Le rose e le spine di un corpo collettivo

Le rose e le spine di un corpo collettivo

Patricia Carolin Mai e Daniele Ninarello – come esito pubblico della propria ricerca, dal titolo THE SPACE OF RELATIONSHIP – Roses and Thorns (un progetto di Lavanderia a Vapore, in collaborazione con Goethe-Institut Turin) – hanno tentato di dar voce, tra spazi di benessere e ferite sociali, a un corpo collettivo, allestendo un collage, un’associazione “sonora” di rimandi, voci e frammenti. Ne è disceso un podcast, trasmesso in diretta il 19 dicembre scorso da Radio Banda Larga e ora disponibile all’ascolto. 

Ogni età ha le sue rose e le sue spine… Che cosa succede se un gruppo di giovani e di anziani si incontrano in uno spazio altro, che non appartiene alla quotidianità di nessuno dei due? Che cosa accade se questo spazio di incontro è costruito da un artista dell’espressione corporea, un coreografo? Quali rose e quali spine nelle espressioni velate dei corpi attivano uno scambio, un’intesa, una relazione, uno spostamento di un punto di vista tra i partecipanti? Quali contenuti e metodi, emersi dal laboratorio, possono costruire il canovaccio di un evento pubblico? In che modo questi contenuti sensibilizzano il pubblico alla questione della responsabilità individuale del benessere collettivo, accorciando le distanze tra generazioni e ricucendo le ferite di un corpo sociale? 

Un viaggio tra Ballade ed Elegia

Un viaggio tra Ballade ed Elegia

I dance-writers della redazione itinerante di We Speak Dance hanno assistito presso il Teatro Civico di Tortona, lo scorso 27 novembre, alla prima regionale del dittico Ballade/Elegia, coreografie rispettivamente di Mauro Bigonzetti ed Enrico Morelli per la MM Contemporary Dance Company. Qui di seguito le loro restituzioni.


I brani, interpretati dai danzatori della MMCDC, accompagnano il pubblico in un viaggio tra generazioni diverse: Ballade di Bigonzetti è un ritratto a tutto tondo degli anni Ottanta, decennio che ha ormai perso i suoi confini temporali per diventare simbolo di un’epoca, mentre Elegia di Morelli racconta la nostra epoca attuale, periodo che mai come ora porta vertigine e smarrimento, ma anche la rinnovata speranza di un nuovo inizio. Ballade è un lavoro allestito senza artifici, che attinge da autori diversi protagonisti di quel periodo, dall’anarchica genialità di Frank Zappa alla poesia profonda di Leonard Cohen, sino all’estetica punk ed esistenziale dei CCCP. In Elegia si presenta una danza corale che ci immerge in un vortice di linee e traiettorie che si incontrano e si intrecciano, in un apparente caos primordiale fino al ritorno della quiete, che porta in sé la scelta di abbandonarsi alla speranza ritrovata, in vista di una nuova rinascita.

BALLADE
coreografia Mauro Bigonzetti
musiche CCCP – Fedeli alla linea, Leonard Cohen, Prince, Frank Zappa
light designer Carlo Cerri
costumi Silvia Califano
interpreti Emiliana Campo, Lorenzo Fiorito, Mauro Genovese, Matilde Gherardi, Fabiana Lonardo, Alice Ruspaggiari, Nicola Stasi, Giuseppe Villarosa

ELEGIA
coreografia Enrico Morelli
musiche Frédéric Chopin, Giuseppe Villarosa
danzatori Emiliana Campo, Lorenzo Fiorito, Mauro Genovese, Matilde Gherardi, Fabiana Lonardo, Alice Ruspaggiari, Nicola Stasi, Giuseppe Villarosa

produzione MM Contemporary Dance Company

Visione di un dittico

di Ludovica Fioravanti

Movimenti circolari di busti che ondeggiavano su solide gambe, corpi atletici che si chiamavano e poi si respingevano. Gli stessi movimenti accadevano dentro di me mentre venivo trascinata in una spirale di sensazioni che si delineava nota e conosciuta, ma che non mi piaceva. Con il passare dei minuti tutto si ricongiungeva, il cerchio si chiudeva, ma provavo allo stesso tempo familiarità e necessità di distaccarmi, riconoscimento e rifiuto. Avevamo intrapreso un viaggio nella società contemporanea, stavamo riflettendo sulle sue principali caratteristiche e sulle sue problematiche. Venivamo improvvisamente rigettati in quel luogo di frustrazione tipico dei momenti in cui ci accorgiamo di dinamiche malsane, ma che allo stesso tempo identifichiamo così facilmente perché nostre. Enrico Morelli, coreografo della MM Contemporary Dance Company, sapientemente giocava con queste sensazioni contrastanti e ci aveva spinti giù nel burrone della riflessione teatrale. Troppo tardi per evitarlo.

In duetti ed ensemble potentissime, ballerini di altissima preparazione tecnica si cercavano, si volevano, si trovavano, si prendevano, si intrecciavano, si lasciavano. E subito si scambiavano, si fiondavano da altri. Questa velocità d’azione, quel risolversi così rapido di un rapporto per iniziarne un altro era una rappresentazione così veritiera della nostra esperienza che quasi mi infastidiva. La mancanza di scelta ma il forte desiderio di intersecarsi, l’assenza di obiettivo però l’urgenza di andare fino in fondo: queste erano le sfaccettature delle relazioni e interazioni umane del contemporaneo, che lo spettacolo così sapientemente ci presentava. Eravamo noi oggi, sovraccaricati da stimoli e infinite possibilità che finiscono per farci scegliere tutto, per volare con superficialità da una cosa all’altra, da una relazione all’altra. Con movimenti ampi cerchiamo di andarci a prendere tutto, per poi contrarci e cambiare direzione.

In questo scorrere del tempo, gli umani spasmodici di afferrare tutto sono uguali, omologati, conformati a questo modo di agire e di pensare. E così, di fronte a noi, otto ballerini neutralizzati dagli stessi costumi e le stesse pettinature.

Musiche di Chopin affiancate a brani di musica elettronica sincopata del ballerino Villarosa non davano spazio alla parola. Perché non si può più comunicare, questa frenesia non lascia spazio al confronto. Siamo soli, smarriti, isolati, le nostre parole sono solo interne, intime. Come la voce che ogni tanto recitava le parole di Mariangela Gualtieri: sporca, slabbrata, imprecisa, a volte si ripeteva e non sempre si comprendeva, proprio come se stessimo parlando a noi stessi, quando sappiamo già cosa vogliamo dire e non c’è bisogno di farci capire.

Secondo tempo. Sipario. Corpi a terra, tutti nella stessa posizione prona e stessa direzione, ma diversi fra loro. Indossavano tutti costumi differenti che lasciavano intravedere le caratteristiche dei personaggi, c’erano corpi con forme disparate che non venivano celate. C’erano capelli corti e lunghi, chiome sciolte, libere, ricce, lisce, more, bionde e rosse. È bastato uno sguardo per realizzare che ciò che prima era una circostanza data non doveva essere per forza così, come un po’ la nostra realtà: ci vuole distacco e prospettiva per ricordarsi che non è sempre stato così, che le interazioni funzionavano diversamente, che in altre epoche i desideri cambiavano, come anche i problemi.

Corpi a terra. Erano vivi e avevano una voce. Si muovevano precisi e decisi, tutti in sincronia, carichi di energia e ogni tanto si sbattevano al suolo con gran fragore. Il tutto mentre si aggiungevano al canto di uno di loro che recitava le parole del capolavoro della band punk-rock anni ’80 CCCP: “Amami ancora, Fallo dolcemente, Un anno, un mese, un’ora, Perdutamente”. Era una comunità unita, che man mano sommava le voci e si raccoglieva per uno scopo più alto. La ricerca della propria identità collettiva passava attraverso ogni corpo, rinvigorito e motivato, con quella tipica intensità di chi si ribella. Con la convinzione, la decisione e la determinazione che si moltiplica perché condivisa, con la mentalità di chi pianta i piedi a terra e non china il capo, ma in sincronia con i compagni lotta per qualcosa di più grande. Eravamo negli anni ’80. Come scesi dalla macchina del tempo dell’intervallo, Mauro Bigonzetti ci faceva gli onori di casa, portando la sua esperienza di quel periodo a Reggio Emilia fra collettivi, lotte studentesche e una generazione alla ricerca di una rinascita collettiva.

La nuova energia dei ballerini era sensuale, libera, disinibita e non costretta. Entravamo con loro in una discoteca pomeridiana e ognuno aveva il proprio stile: c’era il ragazzo a petto nudo con il gilet, quello con la camicia sportiva, la ragazza con il vestito a fiori, quella con i leggings di pelle rosa e la fascetta in testa. L’entrata nel club dava modo di presentarsi, nella propria unicità, con il proprio movimento. Dalle tende di capelli ricci e folti entravano ad uno ad uno nel club, prendendosi il proprio momento di gloria, come già era accaduto negli assoli, dove ogni corpo trasmetteva un’anima diversa, unica, distinguibile, particolare. Ma l’arrivo in discoteca era per trovare il partner della serata, crearsi la propria coppia. Così, una volta entrati, i ballerini sembravano puntare la propria preda, era unica questa volta, forse scelta dall’alcol o dalla droga.  

A tratti invece tutta l’energia veniva catturata da un filo giallo che attraversava la scena, teso. Il tempo si faceva più dilatato e stavano tutti cauti nel toccarlo perché finiva sempre per avvolgersi e intrappolare qualcuno, in modo lento e inarrestabile. E alla fine qualcun altro lo liberava. Forse allora anche nella società degli anni ‘80 cadevamo inesorabilmente nel tunnel, diverso da oggi, ma finivamo per rimanere intrappolati. E anche allora la salvezza stava nelle nostre mani.


Io non li ho vissuti gli anni Ottanta

di Zoe Guindani

Io non li ho vissuti gli anni Ottanta.
Nei gloriosi anni Ottanta io non ero neanche una vaga idea nella testa dei miei genitori,
allora sconosciuti.
Forse uno sbuffo di sole, qualche milione di galassie da qui.
Forse ancora terra.
Io non li ho vissuti gli anni Ottanta
ma so che esistettero.
So di qualcuno che li abitò, di qualcuno che vi si perse e so che hanno lasciato qualcosa nel
nocciolo profondo delle persone che li vissero: delle scie di malinconia.
Gli anni 80 del silenzio nella nebbia, anni 80 che nascondevano un’inquietudine, una voglia di
evasione, di smaterializzazione, di dileguamento.
Anni 80 col terrore dei corpi morti dell’Aids e delle centrali nucleari
Anni 80 di perdita e perdizione, ma
perdizione carica di vita.
Perché se è vero che certe epoche sono più vive di altre, questo è dovuto al senso di comunità
che le permea, come se a donare vita alla vita fosse la condivisione.
Una decina d’anni dopo un ragazzo morendo solo, su in Alaska, su un magico camioncino
abbandonato, avrebbe scritto così le sue ultime parole: la felicità è reale solo quando condivisa.
Se questo è vero, gli anni 80 furono anni felici.
Di una felicità agognante, anche disperata.
Che si correva a destra e a manca, ci si barricava in salotti polverosi, coi culi a terra nelle piazze
per sapere se Gianni era tornato dall’India e se aveva scoperto come aprire i chakra e come
scomporsi e come sentirsi altro e sé al contempo.
Che ci si ammucchiava nelle discoteche e si scacciava l’alito pesante dell’ educazione cattolica a
colpi di voguing, che si cacciava la paura della malattia, della morte e dell’osceno con il gioco
dei sussurri e degli ammiccamenti.
Anni 80 indicibili di tossici rantolanti sul pavimento,
che il tuo laccio emostatico era la mia corda d’impiccagione, che io non esisteva senza tu,
egli, noi…
Ed ancora e ancora come nei secoli, capire distrattamente, che l’unica vera via di fuga
potrebbe essere l’amore.
Ma l’amore si scopre a tentoni, la giovinezza è cieca.
È un burrone costante.
Un filo di rasoio sottile ed affilato.
Di là c’è una luce fredda e bianca. Un obitorio in cui si entra soli, la vaga sensazione che
nulla sia vero di quest’epoca dal vagito capitalista.
Spiriti smarriti,
i giochi non son più divertenti
lo yoyo si è rotto
i block notes rimangono bianchi,
e che importa allora dei mille libri letti, dei mille petali di margherita, che importa se
l’ultimo petalo era un m’ama se ora non respira più?
Ognuno cercava di essere libero a modo suo.
E tutti assieme si cercava una redenzione.
Nella comunione di corpi e anime, nel cercare di andare oltre al proprio corpo per
divenire Altro, per prendersene cura,
di me e anche di te
di me e anche di te.
Rimane il ricordo sensoriale di un tempo andato, un tempo a cui si può guardare con una
lieve malinconia, un tempo che aveva qualcosa a che vedere con la giovinezza e con il
coraggio di viverla a fondo, cercando i propri dei e le proprie regole.
Io non li ho vissuti gli anni Ottanta.
Nei gloriosi anni Ottanta io non ero neanche una vaga idea nella testa dei miei genitori,
allora sconosciuti.
Forse uno sbuffo di sole, qualche milione di galassie da qui.
Forse ancora terra.
Io non li ho vissuti gli anni Ottanta.
Ma so che esistettero,
perché qualcuno li ha ballati per me.


Ballade. La Malinconia delicata di Chopin e l’Emilia del punk nostrano

di Giuseppe Rabita

27 novembre. L’orologio del teatro civico di Tortona segna quasi le nove. Io e Matteo facciamo appena in tempo a sistemarci in piccionaia, e le luci si abbassano.

Inizia Ballade, lavoro di MM ccontemporary Dance Company.
Si tratta di un dittico: Elegia coreografato da Enrico Morelli e il pezzo eponimo, Ballade di Mauro Bigonzetti.


Con Elegia Morelli ci conduce in luoghi onirici intimistici, ammantati dalla musica delicata e malinconica del primo concerto per pianoforte di Chopin, della musica elettronica di Giuseppe Villarosa, e della voce materna e protettiva di Mariangela Gualtieri.

Sii dolce con me recita per tutto lo spettacolo Mariangela Gualtieri e questi corpi, con un movimento sempre molto pulito che fa dell’eleganza il suo tratto distintivo, ci conducono nei luoghi della solitudine, in cui siamo spogliati, fragili, scheletri stanchi.

E in quei luoghi i danzatori ci accarezzano con dolcezza.
questo essere corpi scelti
per l’incastro dei compagni
d’amore.

Gualtieri ripete i suoi versi, ed è come un balsamo. Elegia è luogo della solitudine sì, ma è il luogo anche dove la solitudine viene guarita. Luogo dove, il tocco dell’altro è cura è protezione. Morelli sembra dirci che l’amore è quello spazio dove ho la possibilità di stare in bilico senza paura di essere buttato giù.

Sipario.

Ballade invece è un lavoro dall’atmosfera tutta emilina, anzi forse Tondelliana. Da Tondelli abbiamo imparato che si può essere giovani e libertini anche in provincia. E Bigonzetti ci fa ballare con le musiche dei CCCP, Frank Zappa, e Nick Cave. Regalandoci un distillato degli anni ’80 queer dell’emilia paranoica, tra yo-yo sigarette, quaderni e giochi scanzonati.

Forse questo lavoro non riesce a toccare la profondità e il lirismo di Elegia, ma i pezzi di teatrodanza sono ugualmente efficaci e trascinanti che alla fine vorremmo cedere alla supplica di Giovanni Lindo Ferretti in Annarella sul finale:

lasciami qui lasciami stare lasciami così
non dire una parola che non sia d’amore

Restare lì, immobili nell’emilia delle balere,

giovani.

Per sempre giovani.

E innamorati.

ph. Nicola Stasi

Elegia delle stelle

di Alessandra Perinetto

Il cielo della notte è un dipinto incorniciato dalle chiome degli alberi che circondano la radura, nella tenebra le stelle si sono da poco accese. In questo angolo di mondo, l’unica nostra difesa è la coperta stesa per terra, su cui giaccio a pancia in su, lo sguardo rivolto alla volta celeste.
È la prima volta che tutto ciò succede. Siamo tenebre chiare in quella dolcemente oscura e pura della notte, che ci avvolge e ci ripara. Il silenzio ci isola dal mondo e ci avvicina agli astri.
Per la prima volta vedo, per davvero, su di noi le stelle che celano il volto luminoso, mentre la luna risplende su tutta la terra. E il mio cuore eremita, quando non aveva nessuno, ha compreso di aver trovato la sua, di stella: non si può certo affidare il proprio cuore alla prima che ci si trova davanti.
Per un attimo mi lascio distrarre, mi volto e vedo la persona distesa al mio fianco, sempre per la prima volta, ma all’improvviso i confini del suo volto nel buio si fanno sempre più sbiaditi e il suo viso si mischia con la Notte, la cosa più superba. Mentre guarda verso il cielo, scopro che il suo profilo non è più suo, i suoi occhi non sono più i suoi, sono i miei, si mischiano con la terra, con l’aria, con la Notte e diventano puro buio: energia impalpabile.
Distoglie lo sguardo dal cielo e piano si volta verso di me, sdraiata non vedo più la stessa persona di prima, al mio fianco c’è semplicemente il mio tu più esteso. I suoi occhi sono le stelle, il suo viso il buio della mezzanotte e dalla sua bocca non escono parole, ma il fresco sospiro del vento estivo.
Le stelle ci occhieggiano e ci riconoscono, sanno già tutto di noi, seppur piccolissimi nella storia. Le stelle hanno scritto la poesia che parla di noi e la reciteranno per tutta l’eternità, poesia che non a tutti è concesso udire.
Non c’è vicinanza, non c’è lontananza, c’è solo un unico, nostro tu mentre le stelle fulgide ci proteggono. Siamo due solitudini, due sbagli del mondo che hanno trovato tutte le risposte nel respiro dell’altro. Tutte le nostre domande si dissolvono nella tenebra, il dubbio non ha più significato o motivo di esistere, le parole si sfumano in suoni.
Gli occhi, le mani, i respiri, quell’abbraccio ora è solo riappropriarci di ciò che è nostro, che da sempre ci apparteneva, da quando le stelle sono nate e ci apparterrà finché le stelle non moriranno nell’oscurità. Il nostro viso si incontra dolcemente, le braccia ci avvolgono con tenerezza. Il freddo della notte non può nulla contro di noi. È l’ora in cui nel buio si sentono solo i nostri sospiri e la musica del cielo.
Non c’è più io, non c’è più tu.
La nostra mano tra i nostri capelli si muove come la lieve rugiada tra i fili d’erba. Le nostre labbra sono i confini della galassia finora conosciuta.
Ci maneggiamo con cura, con la cautela che si userebbe per un cristallo. Siamo qualcosa di nuovo, qualcosa di fragile. Le nostre carezze sono i baci della luce morbida nella tenebra.
Scivoliamo via e continuiamo in questo nostro gioco di equilibrio sul confine tra ciò che è tutto e ciò che è niente, tra l’immensità del cielo e la prosaica terra.
E così il nostro petto, che si alza e si abbassa al ritmo dei nostri respiri, si spalanca, dentro di noi palpita il nostro cuore: si è ormai trasformato nella luce di una nuova stella, incompresa, immutabile! E sia placido questo nostro esserci, la nostra nuova esistenza nel firmamento non è un peso, non ha peso. Quello che siamo ora non appartiene più alla terra, è fatto per stare nel cielo tra le stelle: ci innalziamo e siamo luce pura, la tenebra è solo un ricordo sbiadito.
Tra tutte le stelle che ci sono cadute vicino, ne abbiamo trovata una che brilla con la nostra luce, a noi più cara di ogni altra.
Quello che sta succedendo ci consola, consola il nostro errare eterno. Nel cielo della nostra storia, insieme, ogni nostro movimento è poesia, i nostri respiri sono un canto. La parola umana è ormai superflua per noi, nostro è il linguaggio degli astri.
E così voglio viver per sempre, o altrimenti, venir meno nella morte.


Pensieri sconnessi e ruote per Tortona, Ballade e Tondelli

di Mirco Spadaro

«Ci troviamo ogni sera al bar dell’Emily Sporting Club che è sotto al pallone pressostatico della piscina che così d’inverno diventa coperta mentre in estate rimane all’aperto in mezzo a tutti quei pratolini fioriti. Lì siamo sempre in sette otto a sbevazzare e dir cazzate e dare calcinculo al tempo che c’ha proprio solo bisogno d’esser così strapazzato per avanzare con un tantino appena di brio. Siamo sempre i soliti assatanati che ci conosciamo da quando eravamo bambinetti e già all’asilo ne avevamo pieni i coglioni gli uni degli altri. Insieme comunque abbiamo frequentato le scuole materne, le elementari e poi le medie, anche le superiori e dulcis in fine tutti nello stesso ateneo bolognese […], ma gli anni che passano qui legano, ma legano tanto che son venuti a Bologna anche loro, così per non dimenticarsi le nostre facce», scrive Pier Vittorio Tondelli in “Altri Libertini”, quel romanzo un po’ raccolta di racconti e un po’ manifesto d’inizio anni ’80 in cui, in Italia, si iniziava a parlare di una “giovane” narrativa opposta ad una “vecchia”: leggibilità massificata, arrabbiata, autoironica e disadattata schierata, neonata, contro quell’adulta e ormai stantia stagione di sperimentalismo neoavanguardistico che aveva impietrito una borghesia letteraria rea «d’inibire la stessa idea di narrazione». E così il Miro vuole scoparselo, l’Andrea, fotografo lombardo che s’appassiona di tutto e di niente, e non solo il Miro, ma anche l’Ela, l’Annacarla della soffitta di Piazza Bonifazio Asioli e un po’ tutto il bel paese lo vuole, che come un’Italia adolescente in ritardo mentre scopre le grandi rivoluzioni sociali e culturali dell’ultimo cinquantennio del Ventesimo secolo, da Kerouac a Salinger, da Nicholas Ray a Nanni Moretti, scopre anche il proprio retaggio stanco e le sue desuete idiosincrasie in un corpo nuovo e prolifico di giovani pregni di un nuovo linguaggio. Era tempo di una piccola rivoluzione e quella rivoluzione, quella gioventù, aveva dato il suo primo vagito, un orgasmo liberatorio che fu sentito come l’esplodere delle catene d’un dopoguerra letterario lentamente diventato aceto: era tempo, come avrebbero detto Tondelli e Quincey, di una literature of power. Quel libro, “Altri libertini”, l’ho letto, erano le medie ed a me sembrava d’aver trovato un’aspirina all’adolescenza: furore, contraddizione, sesso, amore, amicizia e corpo, così tanto corpo da poterci vedere l’anima dietro. E ci sto ripensando adesso, mentre torniamo dallo spettacolo; abbiamo ingranato la quinta e la notte si dipana, nuda d’avanti a noi; così tanto corpo da poter rivalutare pure quello, il corpo. Non andiamo veloci: riascoltiamo Amandoti, che guardando Ballade c’è entrata in testa, e parliamo poco o nulla, perché in fin dei conti è tardi e la strada è ancora bella lunga. Amami ancora, fallo dolcemente, un anno, un mese, un’ora, perdutamente! Amarti mi consola, mi da allegria, che vuoi farci è la vita, è la vita la mia! E poi i corpiche sbattono, che si riprendono, che si aprono e si consolano toccandosi e lasciandosi, ingarbugliandosi e liberandosi. Che Tondelli sia stato un seme, di Ballade, non è difficile ad immaginarsi; ce lo racconta lo stesso Bigonzetti, che sulla coreografia di Ballade c’ha messo la firma: come spiega in un’intervista rilasciata a Danza&Danza e riportata su una brochure all’ingresso del teatro civico: «quando arrivai ventiduenne a Regio Emilia nei primi anni Ottanta in città brulicava un mondo, un gusto, una singolare energia. E Tondelli era il faro di tutto questo […]»; il rifiuto polemico della normalità borghese, l’alcol, la droga, le ansie di evasione, i viaggi come segno dell’impossibilità di trovare il proprio punto d’approdo di Kerouacchiana memoria, quella suicida e terribile disperazione di vivere e quella volontà atlantidea, alle volte, di non rinunciarsi a morire. Tondelli termina sempre i suoi racconti con una chiusa amara, fa eccezione però “Altri libertini”, caratterizzato dal rientro degli eccessi: l’adolescenza non è l’anarchico termine categorico alla vita, l’amore non è la raglia palliativa di uno spleen inesauribile, un corpo sporco che non si può più toccare; c’è ancora da dare, ancora da amare, e il Miro può riprendersi dalle sue pene e correre in montagna con i suoi amici. Non riesco a non rivedere quest’immagine nelle ultime battute di questo spettacolo che dalla mia retina si estende a questo foglio; stringo ancora il volante, tengo ancora la penna e vedo ancora quei corpi, giovani e vecchi, che danzano parlando dell’amore ieri, oggi e domani. Stanno ancora amando; stiamo ancora amando.

Uno di noi s’è addormento sul sedile del passeggero, la testa appisolata dentro un sacchetto di patatine: la strada è ancora lunga. Prendendo mie le battute iniziali di Viaggio, racconto centrale di “d’Altri libertini”: notte raminga e fuggitiva lanciata veloce lungo le strade di Torino a spolmonare quel che ho dentro, notte solitaria e vagabonda a pensierare in auto verso la prateria, lasciare che le storie riempiano la testa che così poi si riposa.


Elegie Ballanda

di Martina Vianovi

Danza interna d’organi
lotta intestina
sott’acqua
fibrillare e movimento
in involucro
la vita dei tessuti
nostri
mentre siamo
respiriamo
esistiamo
e se c’è uno solo,
quello dev’essere il cuore.
Per forza
dev’essere
il cuore.

Corpi scelti
agiscono
mentre altri, in disparte —
La ripetizione è sangue in circolo
sussurri
suoni di fisiologie
nostre,
non preoccuparti, è tutto ok.

Corpo di uomo, senza movimento
prima donna
ora uomo
e questo di nuovo
dev’essere il cuore
quando cede il passo
alla fatica.

Si passano il testimone, gli organi
gara ad essere pompa
ora defilati
ora al centro
ora in schiera
capobanda
ora in guerra.
Sempre
solo
in guerra.

Si accendono le stelle
fondale nero traforato
sono i pori, eccoli
è da lì che entra la luce
fuori, lei
dentro,
noi.

Senza te io sono lontana
da cosa non so
ma lontana
sono, lontana.