OMBELICHI TENUI. Accompagnare la domanda

OMBELICHI TENUI. Accompagnare la domanda

Ombelichi tenui. Ballata per due corpi nell’aldilà del duo Porro/Zambelli, partendo dal tema dell’accompagnamento, ha mosso gli spettatori a interrogarsi sulla questione della morte. Il 6 novembre scorso così, una platea di adulti e bambini, riunita alla Lavanderia a Vapore di Collegno, ha percorso insieme un viaggio-rituale nell’oltre, capace – prima, durante e dopo la performance – di segnare le menti e di depositarsi nei corpi. Ne ha scritto Eugenia Coscarella, raccogliendo anche la voce della giovanissima Amira.

OMBELICHI TENUI Ballata per due corpi nell’aldilà
di e con Filippo Porro e Simone Zambelli
suono Isacco Venturini
luci Emanuele Cavazzana
scene e costumi Silvia Dezulian
consulenza scientifica Cristina Vargas, Marina Sozzi
consulenza drammaturgica Gaia Clotilde Chernetich
produzione AZIONI fuori POSTO
co-produzione C&C Company, Balletto Civile
con il sostegno di Komm Tanz_Passo Nord, progetto residenze Compagnia
Abbondanza/Bertoni, Lavanderia a Vapore – Centro di Residenza per la Danza
progetto vincitore del bando AiR 2021 – Artisti in Residenza / Lavanderia a Vapore


ore 18.00
Spettacolo
OMBELICHI TENUI
Ballata per due corpi nell’aldilà

C’era una volta un sassolino bianco, che attendeva sulla soglia di un teatro.

Insieme a lui tanti altri sassolini bianchi, custoditi due guardiani, che attendevano noi, che attendevano me.
Al mio ingresso, uno di loro dice:

Ciao,
sono un sassolino bianco,
prendimi e portami con te, ti accompagnerò nella domanda.”

“Non avere fretta, prendi il tuo tempo per rispondere:
Hai paura della morte?
Hai mai toccato un corpo morto?
Hai mai desiderato morire?”

Inizio a girare tra le domande, a depositare sassolini, a depositare i miei sì, a depositare i miei no, insieme a qualche incertezza.

Qui, tra gli scricchiolii, sulla terra, la parola ‘morte’ prende forma, senza perifrasi o sinonimi. Esattamente così com’è, la sua domanda affonda nella carne e si fa strada nella memoria di ciascuno, nella mia.
La sua presenza emerge prepotentemente nello spazio, emerge come materia tangibile e in quella presenza, ci ricorda di essere la grande assente del nostro pensare, dire e agire quotidiano.

Eppure la tocchiamo ogni giorno.

Ogni volta che finisce qualcosa, noi la tocchiamo. Un’amicizia, un amore, un giorno.
Quando andiamo a dormire, quando ci risvegliamo, quando nasciamo. Ogni volta che
varchiamo il confine di qualcosa: buio, luce; visibile, invisibile; silenzio, parola.

La troviamo in ogni soglia.

E allora cosa rimane? Aldilà della rabbia, del dolore, della paura che suscita, cosa rimane?

Il passaggio.

Esattamente quello che accade in scena. Due corpi si incontrano, si accompagnano, si riconoscono, si perdono l’uno nell’altro, si separano. Vivono il passaggio.

Ma questa sera, caro sassolino, dai bambini seduti in platea, tutti impariamo qualcosa in più. Ci svelano il loro potere magico per nobilitare il passaggio: il sorriso.

Si può sorridere alla morte?

Sono loro a regalarci questa domanda.

Sì, si può creare quel piccolo spazio sul volto, lasciar fluire il respiro e in un piccolo suono dire: io ti accolgo.

Aldilà della rabbia, del dolore e della paura che susciti, morte, io ti accolgo.
Nel passaggio,

non voglio imparare a non aver paura, voglio imparare a tremare.
Non voglio imparare a tacere, voglio assaporare il silenzio da cui ogni parola vera nasce.
Non voglio imparare a non arrabbiarmi, voglio sentire il fuoco, circondarlo di trasparenza che
illumini quello che gli altri mi stanno facendo e quello che posso fare io.
Non voglio accettare, voglio accogliere e rispondere
[1].

“Posso sedermi vicino a te?”

Caro sassolino, non è la paura a domandare, ma Amira, che salendo le gradinate della platea, mi raggiunge, chiedendomi se può guardare lo spettacolo vicina a me.
Mentre le dico sì sassolino, penso: che fortuna vedere uno spettacolo sulla morte vicino a una bambina.
Sì sassolino, Amira ha 11 anni e la mia storia prosegue così:

C’era una volta Amira e insieme ci siamo incontrate, riconosciute e accompagnate in questa visione.

Cosa rimane?

Il privilegio di affiancare un corpo ingenuus, sentirlo sussultare sulla seduta della platea, vederlo affacciarsi oltre le teste della fila avanti, per avvicinarsi il più possibile a ciò che sta accadendo. Ascoltarlo mentre sussurra domande, sentirlo ridere di un inciampo, di un corpo che cade, anche se quell’inciampo e quella caduta parlano di morte.

Cosa rimane?

Lo sguardo prezioso di una voce bianca, capace di cogliere con semplicità, aldilà del mi piace, non mi piace, tutte le profondità, i simboli di un’orazione danzata, di un rito laico di passaggio, per salutare qualcuno o qualcosa che se n’è andato. Un’amicizia, un amore o una vita.

Ciao sassolino,
grazie di averci accompagnato
grazie di averci fatto incontrare.
Ti salutiamo con una nostra poesia.
Abbi sempre cura dello spazio della domanda.

Eugenia e Amira


[1] C.L. Candiani, Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione, Einaudi, Torino 2018, p. 75

La vulnerabilità del corpo come atto di protesta

La vulnerabilità del corpo come atto di protesta


La Lavanderia a Vapore si accosta al tema della fragilità tramite la danza, un potente strumento di incontro capace di attivare nuovi canali di comprensione del contesto e dell’altro. A tal scopo, Daniele Ninarello ha incontrato – lo scorso 25 novembre – le scuole per una matinée della sua creazione coreografica NOBODY NOBODY NOBODY It’s ok not to be ok, metaforico quaderno di appunti, celebrazioni e proteste di un corpo vulnerabile, in parte sviluppato dall’artista grazie al lavoro condotto nelle stagioni passate con alcune classi della provincia torinese, nell’ambito di una collective experience pensata per il progetto di innovazione didattica Media Dance.


NOBODY NOBODY NOBODY it’s ok not to be ok
(Appunti, celebrazioni e proteste di un corpo vulnerabile) 

Creazione e danza Daniele Ninarello
Accompagnamento alla creazione Elena Giannotti
Drammaturgia Gaia Clotilde Chernetich
Produzione Codeduomo / Compagnia Daniele Ninarello
Co-produzione Oriente Occidente
Realizzato nell’ambito del progetto Media Dance
L’antico nel contemporaneo: dall’anacronismo al dialogo

L’antico nel contemporaneo: dall’anacronismo al dialogo

Benedetta Colasanti ha visto Satiri di Virgilio Sieni a CANGO Cantieri Goldonetta di Firenze, dove lo spettacolo ha replicato tra il 30 novembre e il 4 dicembre scorsi come segmento dell’edizione 2022 del Festival “La democrazia del corpo”.


Due danzatori, violoncello e voce; luci riflesse e una coreografia che gioca sulla specularità. Sono questi gli elementi principali della nuova opera di Virgilio Sieni. L’idea di Satiri nasce dal continuo dialogo con l’antico, una materia sempre rinnovabile alla quale il coreografo dichiara di riferirsi «sempre, in tutto quello che faccio», un po’ sulla scia di Luciano Canfora e del suo Gli antichi ci riguardano.

Il gioco di specchi tra satiro – almeno apparentemente rappresentato dal danzatore che indossa una maschera dalle fattezze di capra – e uomo – il danzatore senza maschera – si fonda sul sostenersi e sull’accompagnarsi a vicenda. Nei momenti in cui il satiro si stacca da terra, affidandosi completamente al compagno che lo sostiene, la mente vola a La natura delle cose, un “classico” di Sieni in cui la danzatrice Ramona Caia, indossando una grande maschera a immagine di bambolotto, lotta contro la gravità grazie (o a causa) all’appoggio di altri danzatori.

Nel rapporto tra uomo e satiro, tra danzatore senza maschera e danzatore con maschera, possiamo osservare una fusione e uno scambio continuo di corpi e di identità: l’uomo contemporaneo si distacca dal comportamento del satiro ma talvolta è identico a lui. Del resto, parafrasando Sieni, intervistato da Rodolfo Sacchettini dopo la performance, il satiro è stato inventato dall’uomo al fine di fuggire dal quotidiano, dalle norme sociali e dai comportamenti che queste implicano. E tuttavia in Satiri osserviamo ciò che non ci si aspetta dal satiro: non sessualità ma gentilezza, delicatezza, tenerezza, peculiarità spesso più animalesche che umane, più femminili che maschili. Il femminile, in effetti, sembra non esserci ma è onnipresente: nella musica, nella luce, nelle movenze dei performers.

L’uso della maschera è un leitmotiv carico di significato. Dalla funzione de-umanizzante a quella di mettere in evidenza le potenzialità gestuali. Dall’indossare un volto altro a fini stranianti all’atto di deporre la maschera che permette al satiro, un po’ come accade nel vaso di Pronomos, di trapassare dal teatro al mito, dalla finzione alla verità. Ma l’espressività delle coreografie di Sieni risiede soprattutto nell’uso delle mani, che talvolta somigliano a quelle delle marionette: queste ultime sono immobili nelle espressioni del volto ma altamente comunicative nel movimento vorticoso dei polsi.

I due corpi si uniscono e si sdoppiano continuamente, proponendo pose e formazioni in continuo divenire. Da un punto di vista più tecnico, Satiri è il secondo capitolo di Bach duet; gli stessi Jari Boldrini e Maurizio Giunti – duetto ormai solidale – propongono in scena una danza geometrica e speculare, resa possibile dal reciproco scambio di equilibri, energie e forze. Oltre alla geometria, troviamo un infinito campionario di pose che Sieni afferma corrispondere alle infinite proposte dell’iconografia e dell’arte figurativa dall’antichità a oggi (tra queste emergono prepotentemente alcune Pietà). Niente è nuovo nell’apparenza, tutto è diverso nel continuo dialogo tra ciò che è stato – e che rimane – e un presente effimero che sfugge nel momento in cui lo si afferra.   Accostata al mito o all’Arcadia la “barocca” musica di Bach suona anacronistica. Eppure le sonorità prodotte da Naomi Berril, specie quelle vocali, si sposano bene con lo spazio, con l’atmosfera e con l’azione dei danzatori, stabilendo apprezzabili contrasti tra il rigore matematico dei passi e della composizione musicale e l’indeterminazione di un mondo lontano e/o onirico. Bach risuona da anni nelle orecchie di Sieni, accompagna e sostanzia molte delle sue coreografie, prima di Bach duet, basti pensare a Solo Goldberg e Sonate Bach. Bach, afferma di nuovo il coreografo, è una zona franca ma anche di scomoda ispirazione: «me ne vorrei liberare ma non ci riesco».

Una superficie riflettente proietta sul pavimento della scena forme che richiamano la luce che passa attraverso i rami degli alberi. Una luce mai piena, che vive di riflessi, richiamando tematicamente la messinscena del satiro e creando atmosfere oniriche simili a quelle di Apres midi d’un faune.

Nei continui riferimenti a un proprio universo, ben riconoscibile ma sempre in evoluzione, Sieni è una rarità nell’attuale panorama della danza contemporanea: rifugge la citazione ma fa propri concetti, storie e stili. E anche volendo forzare un riferimento, si è costretti a tornare ancora una volta alle origini, quelle della danza contemporanea stessa, quando Isadora Duncan esprimeva la grecità e il ritorno all’antico tramite una libertà assolutamente nuova e inedita nel mondo a lei contemporaneo.

Benedetta Colasanti

SATIRI
coreografia e spazio Virgilio Sieni
interpretazione Maurizio Giunti, Jari Boldrini
violoncello Naomi Berrill
musica Johann Sebastian Bach (Suite n. 3 in Do Maggiore, BWV 1009; Suite n. 4 in Mi bemolle Maggiore, BWV 1010)
luci Marco Cassini
allestimento Daniele Ferro
maschere animali Chiara Occhini
produzione Centro di Produzione della Danza Virgilio Sieni
in collaborazione con AMAT & Civitanova Danza, Galleria Nazionale delle Marche
con il sostegno di MIC Ministero della Cultura, Regione Toscana, Comune di Firenze, Fondazione CR Firenze

foto copertina: Lorenzo Gigante

Visioni dæll’Inferno

Visioni dæll’Inferno

A partire dalla visione di Inferno della compagnia ALDES – recentemente insignito del Premio Ubu come Miglior spettacolo di danza e replicato tra Vercelli, Ovada e Asti nelle stagioni programmate dal Circuito teatrale del Piemonte – alcuni dance-writers appartenenti alla redazione itinerante che segue il progetto di Piemonte dal Vivo We Speak Dance ne hanno scritto, rielaborando le suggestioni offerte dal lavoro coreografico in forma ora critica ora narrativa.


Un lavoro solare, divertente, giocoso, ma che si chiama Inferno. E che non vede la sua genesi legata alle celebrazioni per il 700º anniversario della morte di Dante.

Roberto Castello

L’inferno nella cultura occidentale è il luogo dell’immaginario che più di ogni altro ha offerto spunti a predicatori, illustratori, pittori, scultori, narratori, registi e musicisti. È il luogo dell’espiazione delle colpe morali e materiali; quello in cui i malvagi vengono puniti e il bene trionfa sul male. È il luogo del sovvertimento e del caos, nella cui rappresentazione tutto può coesistere. Ma sarebbe poco credibile oggi una rappresentazione del male come regno di un diavolo sulfureo munito di coda, corna e forcone. L’inferno è qui. E assomiglia molto al Paradiso. È ciò che spinge a compiere ogni sforzo possibile per apparire in qualsiasi momento più bravi, più giusti, più belli, più forti, più attraenti, più responsabili, più umili, più intelligent, a competere per ottenere gratificazioni morali, sociali, economiche, affettive. Di qui l’idea di Inferno, una tragedia in forma di commedia – seducente, piacevole, coinvolgente, brillante e divertente – sull’invadenza dell’ego.

coreografia, regia, progetto video Roberto Castello
in collaborazione con Alessandra Moretti
danza Martina Auddino, Erica Bravini, Riccardo De Simone, Susannah Iheme, Michael Incarbone, Alessandra Moretti, Giselda Ranieri
musica Marco Zanotti in collaborazione con Andrea Taravelli
fender rhodes Paolo Pee Wee Durante
luci Leonardo Badalassi
costumi Desirée Costanzo
consulenza 3D Enrico Nencini
mixaggio audio Stefano Giannotti
mastering audio Jambona Lab
un ringraziamento a Mohammad Botto e Genito Molava per il prezioso contributo
una coproduzione ALDES, CCN de Nantes nel quadro di ‘accueil-studio’, sostenuto da Ministère de la Culture –  DRAC des pays de la Loire,/Romaeuropa Festival/Théâtre des 13 vents CDN/ Centre Dramatique National Montpellier, Palcoscenico Danza – Fondazione TPE
con il sostegno della Rassegna RESISTERE E CREARE di Fondazione Luzzati Teatro della Tosse, ARTEFICI.ResidenzeCreativeFvg / ArtistiAssociati
e con il sostegno di MIC / Direzione Generale Spettacolo, REGIONE TOSCANA / Sistema Regionale dello Spettacolo

Immersioni magmatiche

di Michele Pecorino

Sotto i piedi frettolosi, il pavé si dispiega in tutta la sua immobilità. Lo sguardo, privo di alcun punto focale ben definito, è inframmezzato da attimi alla ricerca dei compagni di spedizione e da rapide occhiate al display del cellulare. I minuti scorrono inesorabili. Si vorrebbe esorcizzare il tempo per arrivare puntuali, ma nulla di tutto questo avviene.  L’ingresso non è ancora visibile, manca ancora una svolta per poter scovare, in lontananza, l’ingresso del teatro. Gli ultimi passi sembrano farsi più leggeri. Ancora un balzo in avanti, attraverso la porta spalancata da una maschera, e si è immersi nel Foyer dalle tinte Carminie. Un sottile filo di voce ci avvisa che lo spettacolo è appena iniziato. Le luci in sala si sono spente da pochi istanti.

Per accedere in sala bisogna aspettare un pò, almeno l’arrivo di un momento drammatico più sostenuto che renda minima la distrazione che potrebbero causare quattro individui che nel buio cercano il proprio posto.  Aspettando il momento adatto, però, è possibile sbirciare tra i pesanti velluti verdi posti a chiusura delle porte. L’occhio si fa strada tra le pieghe dello spesso tendaggio. Nel momento esatto che si trova la vista sul palco, un secco colpo, come quello di un timpano, rimbomba nella sala del teatro civico di Vercelli. Uno squarcio sonoro su una scena che si dipana lenta davanti a un fondale animato tridimensionalmente.

La scena si costruisce nel suo ritmo in un crescendo graduale. Ogni rintocco, sembra arricchirsi di qualcosa.  A ogni colpo l’azione si carica di dinamismo, udibile nella tensione creata tra un effetto sonoro e l’altro e visibile nel legame tra i movimenti, inizialmente lenti.  Finalmente arriva fortuito, il momento per poter prendere posto in sala, la poltrona è proprio accanto al corridoio. L’azione non richiede molto. Una volta seduto, l’attenzione ritorna magneticamente sul palco. Come un rito si entra in una dimensione altra. Il tempo non risponde più ai limiti del reale ma si dilata in maniera lenta, quasi impercettibile. Si accede  all’interno delle viscere vorticose di questo Monstrum. Naturalmente da intendersi nel significato latino del termine quale portento. 

La concezione del tempo assume ritmi cangianti, delle volte incespicanti, ma capaci di innescare una concezione temporale diversa da quella giornaliera. Il gesto, la mimica, il movimento, lo spazio e tanto altro ancora sono il magma che fuoriesce incandescente dalla coreografia di Castello. Uno spazio da poter esplorare in tutta la sua complessità spettacolare. I corpi, nel susseguirsi delle scene, sfuggono al controllo di sé stessi. La frenesia è tanta e lo spettatore non può che trovarsi inerme, attonito davanti al dipanarsi dell’evento. I corpi e i volti dei danzatori diventano per il pubblico figure demoniache ma nello stesso tempo rilucenti, dalle quali rifuggire incerti. Piume, paillettes, copricapi, oggetti vari e sorrisi ammiccanti rappresentano quelle protesi poste a diventare estensioni infernali, spaventose.

Si entra in contatto con la causticità del proprio essere. Proprio mentre si sta seduti in comode e accoglienti poltrone. Dapprima soltanto sospinti  e in seguito trascinati verso il fondo attraverso un coinvolgimento violento. Ma non si ferma di certo a questo, la performance. Lo spettatore viene poi nuovamente scaraventato contro la sua seduta e lasciato solo, immerso nel suo senso di inadeguatezza, di fronte al sublime. Ognuno ha la visione di  quel sé dannato che è in continua competizione con chi sta attorno. Roberto Castello porta in sala l’ossessione inconsapevole dell’uomo contemporaneo, febbricitante di voler primeggiare.

Ebbene nessun riferimento alle celebri bolgie dantesche è presente nell’opera. Nè tantomeno vuole essere una celebrazione per il settecentesimo anniversario della morte dell’Eccelso da Fiorenza. L’inferno per Castello è questa ineluttabile condizione a cui si è condannati. Le immagini in movimento, che scorrono sul fondale, entrano in stretto contrasto con l’azione che avviene innanzi. Un ulteriore elemento per lasciare inerme lo spettatore. Il linguaggio della danza non è l’unico ad essere utilizzato. Sarebbe opportuno parlare, in relazione a questa performance viva e tagliente, di un multi-linguaggio composito. Ogni singolo elemento si lega in modo caotico con il resto.

Quello che restituisce Roberto Castello, non vuole essere in alcun modo una condizione partecipativa, men che meno liberatoria. Quello a cui si assiste è uno spaccato radiografico della società contemporanea. Ogni scena, nell’evolversi dei minuti, trasuda sempre di più di schizofreniche ramificazioni. È proprio attraverso i corpi dei danzatori che si propaga questa frenesia. Proprio attraverso l’elemento del corpo che altro non è che il costrutto politico per eccellenza. I sei quadri si svelano nell’inevitabile scorrere di un tempo sconosciuto, avvolti in una sonorità graffiante e sbalorditiva.

Riaccesesi le luci i volti degli spettatori appaiono turbati. Gli applausi si levano, ma le domande che aleggiano nell’aria sono tante. I movimenti lenti e stanchi conducono i partecipanti fuori. In quell’inferno di cui questo lavoro è lastra radiografica.


Del Piacere ininterrotto

di Giuseppe Rabita

È il 29 novembre, tardo pomeriggio. Ci troviamo a Porta Nuova, un piccolo gruppo di studenti DAMS e della scuola Holden.

Destinazione Vercelli, Teatro Civico.

Perché sfidare le temperature che cominciano a diventare rigide, ingollare un panino alla svelta e schizzare in un teatro di provincia?

Il gioco vale la candela danno in prima regionale Inferno, ultimo lavoro di ALDES firmato Roberto Castello.

Arriviamo in teatro trafelati, qualche secondo dopo l’inizio. Scostando le tende della sala la scena è scarna: una collina, la luna, il tutto ha delle tinte molto oscure. Ogni tanto si sente un boato. Un danzatore arranca, cade, si contorce. È il primo quadro di un inferno che si confonde con il paradiso. Roberto Castello non traccia confini tra bene e male e il tormento lo cela dietro i riti del piacere: ci trascina in gallerie d’arte, dentro i vortici della disco music in cui sette danzatori si lanciano con virtuosismi e esibizionismi. Gli assoli, in cui l’ego del singolo viene pompato pur di superare gli altri ci raccontano un inferno individualista: l’inferno dell’ideologia del merito.

In scena sono sette: Martina Auddino, Erica Bravini, Riccardo De Simone, Susannah Iheme, Michael Incarbone, Alessandra Moretti, Giselda Ranieri sugli sfondi realizzati in video dallo stesso Roberto Castello, e sulle musiche trascinanti Marco Zanotti e Andrea Taravelli, si esibiscono in pezzi di teatrodanza, balli di gruppo, e perfino uno scatenato rockabilly, incarnando la società dello spettacolo: la società del presente.

E se assistiamo partecipi e divertiti ai riti del piacere della cultura contemporanea, vittime e carnefici della società della performance, i settanta minuti di Inferno di ALDES, tra paiette vestiti scintillanti, risate e balli tribali non fanno che suscitare una domanda: come uscirne?

Italo Calvino finisce le sue Città invisibili dicendo: L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

 Roberto Castello non sembra invece darci via di scampo: l’infero è quello che abitiamo tutti i giorni e forse non ci sono modi per non soffrirne.

 Ma intanto divertiamoci!

Buio.


L’ultimo ultimo capodanno

di Martina Vianoni

Suoni lievi ma tribali / corvi / alberi che sono mani / adunche / pigiami, vestaglie, lustrini / eleganti per l’ultima notte / versi animali / ultimo capodanno da fine del mondo / aspettiamo la fine / sperando / un circo, una banda / che contenga un inizio / tamburi, piatti, sonagli / saltano anche gli alberi alla luce dell’alba / dei loro peccati / dei loro rimorsi / è il canto lirico del nostro epilogo / dove sfuma il tono dell’allegria / si accende l’acuto della devastazione / un frigo rosso vola nel cielo / del mondo è rimasta soltanto la luna / ciabatte rosa e un asciugamano in testa / dopo la doccia / zombie finiti qui per caso / le ciabatte calzano grandi / anche volessimo / non potremmo scappare / ma se ci prendiamo per mano / possiamo guardarci negli occhi / ci imbattiamo l’uno nell’altro / per caso / il nostro boa ha perso qualche piuma / pulcino superstite / sul palco / della fine del mondo.

Quanti giorni mancano /
alla fine? /

Li contiamo / stanghette nere / su muro di mattoni / siamo un paesaggio / desolato / mostra d’arte contemporanea / di noi stessi / musei / del nostro passato / possiamo commentarci / berci / brindarci / valutarci, prezzarci, acquistarci / e abbandonarci / è una bomba / o una festa di compleanno? / se soffiamo / si applaude / o si muore? / qualcuno muore, lontano / ma non siamo noi / questa volta / non siamo noi / ticchettio / o conto alla rovescia / fisiologico / dei nostri giorni / facce da spavento / eppure / sorrisi / ultimo party / ossessivo / rito antico / dell’estinzione / campane e salvezza / o dannazione / sabba dei vivi / precipizio dei morti / spogliarsi è il gesto / naturale / unico / velluto / che può salvarci / l’anima / e il culo.

Si accende una luce / è l’alba / noi corriamo / in cerchio / ci scappiamo / ci inseguiamo / le nostre dita / puntano altrove / siamo scimmie / morse dal demonio / e il demonio / in cerchio / lo cerchiamo / coda a sonagli / che ci racconta / l’imminenza / della fine / una danza / della pioggia / senza pioggia / i passi / piccoli / le distanze / lunghe / procediamo / a capo chino / dove andiamo / non è il noi / che lo decide / più tribale / di così / si muore / (o si vive) / infatti / siamo morti / vivi / adieu / e se la carne / ci vibra addosso / è il rimasuglio / di una vita / che rimane / in qualche mossa / ci scoviamo / umani / è soltanto / un accenno / un bagliore / transitorio / e stanotte / le statue / stanotte / se ne vanno / se potessero / i quadri / prenderebbero / fiato / per lasciare  / la tela / lì / bianca / e scivolare / via / di lato / invece / c’è uno squalo / a mollo / nel pavimento / smorfie / nello specchio / lo specchio / sono / le altre facce / aftershow / dei nostri giorni/ showreel / di anime storte / lago dei cigni / in cui annegare / gran cabaret / sciarada / di sventura / nostra / autoindotta / e sepolcrale.

Inferno
è il posto
che fuori dalla finestra
gli alberi si spogliano
e tu
dentro la finestra
hai più freddo.


Quadri infernali

di Maria Rosaria Visone

Non il punto più basso, non il luogo più oscuro, non il mondo più torrido. Anche qui e adesso, l’inferno di Roberto Castello è alla luce del giorno: negli spazi che attraversiamo, nelle parole che ascoltiamo, negli sguardi che incrociamo. Spesso è visibile, altre volte celato.

Ci sono due modi per non soffrirlo: «il primo riesce facile a moltə: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio» (Italo Calvino).

#Quadro1
L’inferno è un un’isola blu, lontana, sperduta, arida.
Ci vivono creature strane, su quest’isola.
Si muovono, esplorano oltre la dimensione umana.
Vibrano e fanno vibrare rami rossi, spogli
generano stormi di uccelli neri
accendono fuochi d’artificio bianchi
suggeriscono forme di vita diverse.
Ma tutto è estremamente apocalittico, anche il dialogo.
Non c’è relazione, tutto ristagna e rallenta.
Destrutturato, anche il suono.
Di fuoco e fiamme, neanche l’ombra.
Eppure, l’inferno: una macchina ghiacciante.

#Quadro2
L’inferno siamo noi
quando vaghiamo senza meta.
L’inferno siamo noi
quando regaliamo energia all’inerzia.
L’inferno siamo noi
quando guardiamo ma non osserviamo.
quando afferriamo ma non teniamo.
L’inferno siamo noi
annoiatə
in ciabatte
in accappatoio
in pigiama
quando vorremmo agire
ma non agiamo
e usciamo di scena
perdendoci la vita.

#Quadro3
L’inferno è un qualsiasi luogo
affollato di vuotezza.
L’inferno è un qualsiasi luogo
governato da
classismo
superficialità
pochezza
inconsistenza
sull’orlo di un precipizio sociale
dove passeggiano bombe emotive
pronte a scoppiare
in un delirio danzante
che (tutto sommato) ci piace.

#Quadro4
L’inferno è qualsiasi atto di persuasione
nei confronti propri
nei confronti del mondo.
L’inferno è
dipingere
dipingersi
oltre i limiti della (propria) Natura.
L’inferno è
il contemporaneo avulso dai contesti
un pensiero non ragionato
una voce gelida.

#Quadro5
L’inferno è un caos brillante
un ribaltamento dell’ordine primordiale
L’inferno è
una danza bella, giocosa
fatta di
infinita energia
estrema vitalità
inesauribile gioia
inestimabile colore.

L’isola blu esiste ancora
è ancora freddo.
L’inferno precipita ovunque
il pubblico l’ha solo dimenticato.

Una luce da trovare: le “illuminazioni” di Gianni Staropoli

Una luce da trovare: le “illuminazioni” di Gianni Staropoli

Gianni Staropoli – light designer, docente a progetto presso l’Accademia Nazionale D’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” e tre volte Premio Ubu per il Miglior disegno luci (dal 2017 al 2019) – è tutor del bando τέχνη | téchne di Lavanderia a Vapore, quest’anno rimodulato in una residenza collettiva per cui sono stati recentemente selezionati i progetti di Fabritia D’Intino, Concerto_The invisible (realizzato con Federico Scettri), e di Teodora Grano, Daughters (clicca qui per approfondire). Abbiamo avuto modo di incontrarlo e di discorrere con lui – tra folgorazioni antiche e recenti illuminazioni – di drammaturgia della luce.


«Di solito uso uno spazio scenico molto vuoto, non c’è quasi niente, il che rende molto complicata la recitazione degli attori […]. In effetti lo spazio scenico lo descrivo con le luci, sono molto visionario; la luce ha una parte essenziale e la ricerca dello spazio scenico per quello spettacolo, già dal punto di vista dell’immaginazione, deve renderlo adatto anche a intercettare la luce e a riproiettarla […]. Quindi, la luce come determinazione dello spazio scenico. E non solo. Se un attore recita con una luce azzurra, se ne è cosciente, lo fa in modo diverso che non con una luce rossa. Non solo dal punto di vista estetico, ma anche della carica entusiastica, delle pulsioni. Sappiamo benissimo la forza dei colori sullo spettatore. Ma questo funziona anche sugli attori. Comunque faccio teatro in modi molto diversi: una volta ho recitato con quaranta candele e un tamburo, altre volte con dei neon, oppure con delle luci antinebbia brutte, assolutamente brutte. Agisco a seconda di quello che voglio trovare o che voglio ottenere, ma non per un effetto decorativo.»

Leo de Berardinis, Dialogo sull’attore, a cura di Giorgio Zorcù, Effigi, Arcidosso 2012, pp. 36-37.

Partiamo da una questione di “sottopancia”. Ti senti più luciaio o light designer?

Avverto la scissione tra questi due termini, che inquadrano entrambi un mestiere, un’esperienza. Vi è però una notevole differenza tra l’uno e l’altro. Sul palcoscenico mi sento infatti luciaio, nelle fasi di montaggio, nel corso dell’allestimento, durante le prove, quando tocco con mano i corpi illuminanti, mentre osservo ciò che accade. Al luciaio associo anche uno sguardo, o meglio un’azione e una direzione dello sguardo. Light designer è invece un’etichetta comoda per locandine e crediti. Mi sta bene, lì. La tollero. Faccio fatica tuttavia, intimamente, ad accettare l’idea che esista un “disegno luci”, a digerire quest’espressione invalsa ormai nell’uso: per me, con la luce, non si disegna affatto. Si fa, si prova a fare quantomeno, tanto altro. Non disegniamo. L’esperienza contraddice la consuetudine verbale. Laddove il secondo termine insiste sul mestiere, il primo evidenzia il dato essenziale, la luce, componente che chiama con sé in causa lo sguardo, di cui dicevo prima. Quindi il luciaio è colui che cura, che si addentra in un certo modo all’interno del lavoro drammaturgico.

Insita nel concetto di luciaio è anche una certa materialità. La parola pertiene insomma anche al campo dell’artigianalità, del creare, del com-porre (nel senso di montare, mettere insieme).

Esattamente, negli allestimenti c’è un fare. Non è la creazione, quanto più è un addentrarsi, passo dopo passo. Quindi la composizione si disvela progressivamente, nel trovare poco alla volta qualcosa. Ecco che nel luciaio confluisce quest’aderenza, questa porosità. E naturalmente la sapienza artigianale è parte strutturale del lavoro: la luce è materiale e immateriale, fisica e metafisica. Ma investe anche, coreograficamente, lo spazio.

Quali verbi assoceresti al tuo processo di ricerca luministica?

Beh, trovare ultimamente mi risuona molto. In effetti, quando si cerca qualcosa e poi lo si trova si riesce a intuire, a comprendere: “una luce si accende” dentro di noi. È un percorso di conoscenza. che coinvolge il luciaio, il regista, il corpo degli attori o dei danzatori, lo spazio. Questo trovare si lega anche a un aspetto della scrittura, alla drammaturgia, alle scansioni, agli scarti dell’azione scenica. Tutte istanze che vanno appunto trovate. Amo ripetere: “È importante fare la cosa giusta al momento giusto”. Un cambio luci, per esempio, può essere banale, ma – se inserito al momento opportuno – può anche rivelarsi un fondamentale elemento drammaturgico della partitura.

Quali sono, a livello visivo e biografico, le suggestioni alle origini della tua carriera?

Sono cresciuto su una collina sopra Tropea. È la casa della mia infanzia, dove tuttora vive mia madre. Dalla finestra si vede il mare: ho in mente quell’immagine potente, che si estende a colpo d’occhio dallo stretto di Messina all’Etna, passando per le isole Eolie (Vulcano, Panarea, fino a Stromboli). Per vent’anni ho osservato e assorbito questo panorama: si è impresso in me. Credo quindi che nasca tutto da lì. Ovviamente questo fatto l’ho elaborato molto tempo dopo aver iniziato a interagire e a dialogare con la luce. Con gli anni, tale consapevolezza si è cristallizzata. La folgorazione definitiva l’ho poi avuta avvicinandomi a Marcello Sambati, poeta, autore e regista (nonché creatore di spazi e animatore di teatri), che fondò negli anni Settanta la compagnia Dark Camera, grande protagonista dell’avanguardia teatrale e delle cantine romane. L’incontro con lui è stato decisivo, sia da un punto di vista poetico che sotto il profilo professionale. L’aver iniziato con la sua arte, con la sua umanità, mi ha dato una forma, un imprinting.

Che cosa rappresenta, da un punto di vista emotivo e compositivo, la ricerca di una determinata luce, che investe – per esempio – il corpo dei danzatori in scena?

Non ho una risposta univoca. Varie possibilità emergono infatti a seconda dei casi. Credo innanzitutto che esista una differenza sostanziale tra organizzare, disporre, le luci e “fare la luce”, generarla. Alcuni lavori richiedono esplicitamente l’una o l’altra soluzione fin dall’inizio. Vi sono poi spettacoli che virano verso un’unidirezionalità luministica, spettacoli invece che richiedono una gamma, un’iride, uno spettro più ampio. Prima di decidere se optare per un controluce giallo o bianco, mi domando sempre: “Che cos’è la luce?”. È una domanda che mi sorge spontanea. Così come mi chiedo: “Che cos’è questo corpo, questo apparato, dinanzi a me?”. Anche la luce è nel qui e nell’ora, è legata a ciò che accade realmente. Bisogna ascoltare pertanto le parole del testo, il movimento degli artisti, lo spazio. È sempre un lavoro di scoperta: non procedo mai “di mestiere”, manieristicamente. Non mi anima cioè la trovata di sicura presa, il “qui funziona quello, qui quest’altro…”. Certo, ne deriva un percorso che è sempre un po’ in salita, perché anziché accontentarmi di uno schema riproducibile in maniera passiva, prediligo la sfida, il rischio della ricerca. Da un lato è un mio percorso personale, dall’altro – per poter illuminare un corpo e uno spazio – devo necessariamente entrare all’interno di un discorso autentico, sincero.

Proviamo a passare su un piano concreto: OMBELICHI TENUI, in scena alla Lavanderia a Vapore a inizio novembre. Che cromia emanava quello spettacolo? Come hai costruito in quel caso la drammaturgia della luce?

Premetto che io amo seguire le prove, proprio per capire che cosa risuoni tra le varie persone coinvolte in un certo processo artistico. All’inizio infatti c’è sempre un incontro umano, precondizione essenziale al buon esito del lavoro. Una necessità insomma di dialogo e di umanità. Con Filippo [Porro] e Simone [Zambelli] ci siamo trovati fin da subito molto bene. Il loro percorso in OMBELICHI TENUI è stato, per così dire, “trasformativo”. Era partito in una certa direzione; io sono poi subentrato nella versione più “teatrale” della ballata. Abbiamo pertanto lavorato insieme sulla definizione dello spazio. Non è tanto un problema di ambientazione, quanto più domandarsi: “Che tipo di spazio c’è?”. L’importanza dunque di individuarlo… La mia proposta è stata in effetti estremamente concreta: abbiamo debuttato a Castiglioncello, in condizioni neppure troppo propizie. Abbiamo creato un varco nello spazio, una specie di porta (e qui si sono innestate le luci per dare l’atmosfera, la temperatura giusta). La mia proposta – dicevo – è stata molto netta: creare una realtà fisica entro cui collocare la relazione fra questi due corpi. Quindi abbiamo lavorato sulla concretezza…

… nonostante – mi viene da dire – l’alta trascendenza di quell’aldilà che dà titolo alla ballata. La ricerca, insomma, da parte tua, vostra, di una materialità in un setting tradizionalmente deputato, invece, all’inconsistenza.

Sì. Anche se poi il rapporto con lo spettatore, in teatro (pur essendo quest’ultimo, come piace pensare a me, un luogo di utopia e di illusione), ti porta sempre a un forte grado di concretezza. È lì presente un pubblico, che guarda, che respira, che tossisce. Abbiamo lavorato così in direzione della definizione di uno spazio leggero, transitorio, tenendo però conto della tattilità della relazione con la platea.

Un altro progetto della Lavanderia a Vapore che ti vede protagonista, in veste di mentor, è τέχνη | téchne, giunto ormai alla sua terza edizione. Vuoi darci qualche feedback su questo fronte?

Come in tutti i progetti si compie inevitabilmente – nel tempo – una trasformazione. In effetti, già nel corso della sua ultima tornata (a fine ottobre, con A TALE FOR THE ROOTLESS), τέχνη | téchne è mutato. Nato grazie all’attenzione, alla sensibilità e alla cura di Valentina Tibaldi e dello staff di Lavanderia, questo percorso è nato fondamentalmente come “residenza di accompagnamento tecnico”. Ben presto ci siamo resi conto, però – e nella residenza di Teresa [Noronha Feio] questo dato è emerso in maniera evidente -, che non ci si potesse naturalmente fermare a una trasmissione nozionistica di saperi pratici. Certo la tecnica resta basamento, ma intesa come ars, come grammatica compositiva del corpo illuminante. Abbiamo per esempio abbandonato la giornata dedicata all’illuminotecnica, non abbiamo parlato di sagomatori o domino. Piuttosto, ci siamo concentrati sul lavoro di Teresa, che tornava in scena dopo alcuni mesi. Per me la luce è innanzitutto un pensiero, che – per trovare concretizzazione – si affida a maestranze e strumenti, tecnologie. Quest’anno abbiamo insistito molto sulla drammaturgia del lavoro, su alcuni nodi dischiusi un po’ a ventaglio. Man mano che si procedeva con la residenza, da parte mia introducevo riflessioni che potessero sollecitare la costruzione, in particolare sui temi dello spazio e della luce. Teresa aveva portato un’opera in fieri: ne possedeva dei segmenti, che nel “filaggio” era necessario rafforzare, lavorando sulle transizioni, sulle estremità (l’inizio, la fine), sulle durate, sui tempi di esposizione del corpo alla luce. Questioni che – di norma – vengono trascurate, su cui non si ragiona in maniera debita, ma che quando vengono adeguatamente esplorate diventano fondamentali in ottica creativa.

Dal 2023, τέχνη | téchne diventa una residenza collettiva, un percorso di formazione condivisa e collaborativa in cui i partecipanti, a partire da un proprio progetto artistico in divenire, avranno modo di scandagliare visioni e nozioni pratiche relative alle componenti della luce, del suono e dello spazio al fine di leggere e comprendere la tecnica non come elemento da configurare nella fase conclusiva del prodotto artistico, ma come dimensione da pensare in nuce, in quanto stratificazione della drammaturgia del progetto. Ecco, qual è il valore aggiunto che si cela all’interno di questa nuova modalità, di questo spazio-tempo innervato di scambi e relazioni?

Chiara Organtini ha avuto – il termine mi sembra più che mai calzante in questo contesto – un’illuminazione: ha avvertito il desiderio di allargare la platea dei partecipanti, trasformando appunto τέχνη | téchne in una residenza collettiva, in un ambiente di cura reciproca. Credo che questo switch possa rivelarsi determinante. Per come la intendo io, diventerà quasi una residenza creativa, un allestimento collettivo e in progress al cui interno io interverrò (in base alla direzione assunta dal lavoro) stimolando quesiti relativi allo spazio, al colore, al corpo, alla drammaturgia della luce. Non si tratterà insomma di domande predeterminate a priori, come in una lezione frontale, bensì dipendenti dalle necessità specifiche della creazione. Il focus è il lavoro che gli artisti selezionati portano, o meglio un suo segmento. A partire da qui andremo a innestare tutta una serie di interrogativi che possano nutrirlo, mettendo in atto magari piccole prove o variazioni. Un allestimento, d’altronde, è sempre un viluppo di pratica e teoria, riflessione e azione. Ciascuno guarderà il lavoro altrui, in una dinamica circolare di riflessione e rifrazione delle questioni. In ciò consiste, dal mio punto di vista, il maggior valore aggiunto di questa nuova postura.

Intervista a cura di Matteo Tamborrino

“Scrivere lo spazio” #2 | Campeggi di ricerca per corpi erranti

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Dopo essersi scatenata nei festeggiamenti per i 7 anni di gestione Piemonte dal Vivo (clicca qui per leggere il reportage), la Lavanderia a Vapore di Collegno, tra il 18 e il 19 novembre, ha ospitato l’edizione pilota di un trasognato e “stellare” Research Camping, dal titolo Wandering Bodies (clicca qui per approfondire), co-progettato dal Centro di Residenza insieme a Workspace Ricerca X. Un ambiente aperto all’immaginazione collettiva di artistə e curiosə, ospitatə sotto le Tende o nella vasca di una metaforica (e sinestetica) Piscina. Anche quest’esperienza, lavorando sullo scambio, sulla ricerca e sulla ridefinizione dei luoghi e delle liturgie dello stare comunitario (con un ritmo più lento e morbido rispetto ai dionisismi della festa) si è configurato come una forma virtuosa di “scrittura dello spazio”.